Controllo delle mail aziendali da parte del datore di lavoro compatibili con la CEDU

Con una sentenza discutibile, che presenta non poche ombre e che non permette di tracciare con precisione i confini del controllo della corrispondenza in ufficio, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha dato il via libera alla sorveglianza dell’account aziendale da parte del datore di lavoro. E lo ha fatto con la sentenza Barbulescu contro Romania (CASE OF BARBULESCU v. ROMANIAdepositata il 12 gennaio con la quale Strasburgo, pur riconoscendo che nel diritto alla corrispondenza tutelato dall’articolo 8 della Convenzione europea, che si occupa del diritto al rispetto della vita privata, rientra la tutela delle mail e delle telefonate dai luoghi di lavoro, ha sdoganato il diritto del datore di lavoro al monitoraggio delle mail aziendali. E’ stato un ingegnere rumeno a citare in giudizio la Romania per violazione dell’articolo 8. Questo perché, a suo dire, le autorità nazionali non avrebbero adempiuto agli obblighi positivi derivanti dall’articolo 8 consentendo al datore di lavoro di licenziarlo perché, dopo aver attivato un account aziendale su richiesta del datore di lavoro, aveva scritto alcune mail personali dallo stesso account. I giudici internazionali non hanno dubbi nel ritenere che mail e altre forme di corrispondenza dagli uffici rientrano nel diritto alla corrispondenza e che ogni lavoratore ha una legittima aspettativa alla tutela della propria privacy anche nei luoghi di lavoro, con la conseguenza che ogni attività di controllo gli deve essere comunicata. Tuttavia, malgrado nel caso in esame non sia stato chiarito se il datore di lavoro avesse preventivamente avvisato il dipendente circa la possibilità di controlli sulla posta elettronica, la Corte sdogana il monitoraggio sulle mail aziendali se rispetta il requisito della proporzionalità. Nel raggiungere questa conclusione, Strasburgo dà grande rilievo alla distinzione tra controlli sull’account personale e su quello aziendale e al fatto che il datore di lavoro era convinto che la mail fosse stata utilizzata per rispondere ai quesiti dei clienti, procedendo così a una verifica. Tra l’altro, in base alla politica aziendale, il dipendente era consapevole del fatto che era proibito utilizzare computer e risorse aziendali per fini personali. Regolamenti e prassi interne erano, infatti, indirizzate in questo senso. Circostanze che fanno propendere la Corte europea verso la legittimità dell’ingerenza nella vita privata del dipendente tanto più che il datore di lavoro ha il diritto di verificare l’adempimento dei compiti professionali durante l’orario lavorativo. Strasburgo, inoltre, rileva che l’ingerenza è stata proporzionale rispetto al fine perseguito proprio perché il datore di lavoro ha effettuato una verifica unicamente sulla mail aziendale e non su dati o documenti contenuti nel computer del dipendente. Così come non è irrilevante il fatto che nel corso del procedimento giurisdizionale nazionale siano stati utilizzati diversi accorgimenti per non svelare l’identità delle persone con le quali il dipendente si era scambiato mail e il contenuto dei messaggi che è stato diffuso in modo limitato, solo per dimostrare che non si trattava di attività professionali, senza che lo stesso contenuto sia stato determinante per il licenziamento.

Ciò non toglie, però, che, come rilevato dal giudice Pinto de Albuquerque che ha allegato un’opinione dissenziente, il datore di lavoro potesse intuire dall’oggetto del messaggio che non si trattava di una comunicazione professionale e che, in ogni caso, l’account con il nominativo del dipendente, malgrado l’utilizzo del computer aziendale, fosse del lavoratore che non aveva dato il consenso alla trascrizione del contenuto del messaggio privato. Il giudice tra l’altro, a nostro avviso in modo condivisibile, ha ritenuto che il licenziamento non fosse una misura proporzionata tanto più che non è stato provato alcun danno sull’azienda.

 

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