Violenza contro le donne: il Comitato ONU “condanna” l’Italia per discriminazione nelle aule di giustizia

Vittimizzazione secondaria, differente trattamento in sede giudiziaria, dichiarazioni rese da una donna vittima di violenza poco considerate rispetto al maggiore peso dato a quelle dell’imputato. Stereotipi nell’aula di giustizia. Un mix di elementi che ha portato il Comitato per l’eliminazione della discriminazione nei confronti delle donne (CEDAW), istituito dal Protocollo del 1979 alla Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne del 18 dicembre 1979 (ratificata con legge 14 marzo 1985 n. 132), a “condannare” l’Italia per un caso relativo a una donna vittima di violenza sessuale. Al Comitato, che si è pronunciato il 18 luglio (CEDAW/C/82/D148/2019, CEDAW_C_82_D_148_2019_34159_E), si era rivolta una donna che aveva denunciato l’ex marito per alcuni episodi di violenza domestica. Il giorno successivo alla denuncia un agente si era recato a casa della donna, sostenendo di dover acquisire informazioni per le indagini e, stando alla denuncia della donna, l’aveva violentata. Un medico aveva accertato la violenza e la grave situazione di stress della donna. Le prove erano inconfutabili: l’uomo era stato condannato a sei anni di carcere per violenza sessuale ed era stato interdetto dai pubblici uffici. Il verdetto, però, era stato ribaltato in appello, l’uomo era stato assolto e successivamente la pronuncia era stata confermata in Cassazione. La donna si è rivolta al Comitato ONU ritenendo di avere subito una discriminazione in quanto donna ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione. Respinta l’eccezione di inammissibilità del ricorso avanzata dal Governo, il Comitato ha richiamato gli obblighi positivi degli Stati che sono tenuti a eliminare ogni forma di stereotipo e di discriminazione, anche nei casi di accesso alla giustizia. Per quanto riguarda l’assoluzione pronunciata dalla Corte di appello, il Comitato rileva che i giudici  avevano dato molto peso al fatto che secondo la difesa dell’imputato quest’ultimo aveva usato un preservativo da ciò deducendo che il rapporto fosse stato consensuale, malgrado i referti medici avessero attestato una violenza. Il Comitato osserva che non è stato considerato con la dovuta attenzione che la sostanza trovata non fosse il lubrificante del preservativo, ma altra sostanza, oltre al fatto che non si può sostenere che l’uso del preservativo escluda automaticamente la violenza. Non solo. I giudici non hanno tenuto conto di tutte le perizie mediche e hanno sostenuto che spettava alla donna fornire una spiegazione dettagliata dell’esatta natura della violenza subita e che i lividi potevano essere imputati ad altro. Né la Corte di appello, che aveva richiamato anche la possibilità di “un rapporto focoso”, ha dato peso alle continue telefonate fatte dall’imputato alla donna che lo aveva denunciato anche per queste molestie. Il Comitato è altresì stupefatto dalla circostanza che la Corte di appello abbia preso in considerazione elementi legati al carattere della donna, sostenendo addirittura che, poiché la vittima era stata particolarmente lucida, questo comportamento non fosse compatibile con una situazione di violenza. In pratica, nelle aule giustizia la donna era stata oggetto di una vittimizzazione secondaria con una valutazione discriminatoria di alcuni suoi comportamenti. Così, in modo sorprendente, è stato considerato sospetto il comportamento della vittima che aveva raccolto prove fisiche dopo l’aggressione. Evidente, poi, il differente trattamento riservato alla donna rispetto all’imputato al quale i giudici di appello hanno scusato le contraddizioni del racconto mentre, la presenza di alcune incoerenze nella versione della donna, è stata considerata decisiva per l’assoluzione dell’uomo. Il Comitato ha così concluso che l’assoluzione in appello, decisa malgrado le numerose prove mediche e testimoniali, va attribuita unicamente all’esistenza di stereotipi di genere che hanno portato a dare maggiore peso probatorio al racconto dell’uomo, senza che la Corte di appello sentisse l’esigenza di riesaminare talune prove o ascoltare nuovamente i testi. E’ sorprendente, poi, che non sia stato considerato centrale l’aspetto del consenso: la donna, inoltre, è stata sottoposta a un esame della propria vita e dei propri comportamenti con un’evidente discriminazione. Superficiale anche l’esame della Cassazione con la conseguenza che, secondo il Comitato, vi è stata una violazione degli articoli 2, lettera b), d) ed f) (divieto di ogni forma di discriminazione), nonché degli articoli 3 (adozione di misure per eliminare le forme di discriminazione), 5 (modifica dei comportamenti socio-culturali per eliminare pregiudizi) e 15 (parità uomo-donna di fronte alla legge) della Convenzione. Il Comitato ha raccomandato all’Italia di risarcire i danni subiti dalla vittima e di adottare misure idonee a far sì che i procedimenti per reati sessuali siano portati avanti senza indebiti ritardi. L’Italia è poi tenuta a intervenire per fare in modo che i procedimenti giudiziari per reati sessuali siano imparziali, equi e non condizionati da stereotipi o pregiudizi di genere. Di qui la richiesta di un’adeguata diffusione, tra gli operatori del diritto, della conoscenza della Convenzione e del suo Protocollo e di interventi con misure legislative per garantire che l’onere della prova non sia indebitamente oneroso per la vittima e che l’aspetto del consenso sia considerato determinante. Entro sei mesi il Governo l’Italia dovrà fornire al Comitato informazioni sulle misure adottate.

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