Sulla nozione di organizzazione criminale transnazionale interviene la Cassazione

Un gruppo criminale deve essere classificato come transnazionale quando le condotte illecite sono realizzate in diversi Stati e anche solo uno dei componenti del gruppo si trova all’estero. In questi casi va applicata l’aggravante speciale di cui all’articolo 61-bis del codice penale che si occupa di dette circostanze nei casi di reati transnazionali. È la Corte di Cassazione, quinta sezione penale, a stabilirlo con la sentenza n. 29841 depositata il 27 agosto (transnazionalità) con la quale è stato respinto il ricorso di un cittadino del Bangladesh che aveva impugnato la sentenza del Tribunale di Catania sull’applicazione di una misura cautelare in carcere in quanto l’uomo era indagato dei delitti di associazione per delinquere, riduzione in schiavitù, sequestro di persona, reati aggravati dall’articolo 61-bis del codice penale nei confronti di un migrante che era stato posto in un centro di detenzione in Libia. Qui l’uomo aveva subito numerose violenze e, arrivato in Italia, aveva riconosciuto il suo aguzzino nell’hotspot di Pozzallo. Di qui la denuncia e il procedimento penale. L’accusato, tuttavia, sosteneva che nell’ordinanza di custodia cautelare era presente un vizio di legge in quanto il provvedimento non era stato tradotto in una lingua nota all’indagato. Contestata anche l’aggravante della transnazionalità in mancanza di un disegno unitario transnazionale. La Cassazione ha respinto il ricorso. In primo luogo, sulla questione della traduzione, la Corte ha rilevato che la mancata conoscenza della lingua italiana non era nota al giudice nel momento in cui era stata adottata la misura della custodia cautelare, che era stata acquisita solo nel momento dell’interrogatorio di garanzia. Così, era stata disposta la traduzione dei contenuti della custodia cautelare e degli atti utili per la difesa. Sul fronte dell’assenza dei presupposti indiziari per ritenere sussistente l’aggravante della transnazionalità, la Corte ha constatato che l’accusato reclutava uomini in Bangladesh per poi trattarli come schiavi, sequestrandoli in centri di detenzione illegale in Libia, dai quali potevano allontanarsi solo a seguito del pagamento di un riscatto da parte dei familiari ai quali erano inviati video con le torture subite dalle vittime. La Suprema Corte ha chiarito che l’aggravante della transnazionalità, che richiede una reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni, va accertata tenendo conto del fatto che la condotta criminale “sia stata determinata o anche solo agevolata, in tutto o in parte, dall’apporto di un gruppo criminale organizzato, impegnato in attività illecite in più di uno Stato”. In questo caso, le attività illecite erano state compiute in più Stati e all’estero si trovava almeno uno dei componenti del gruppo “chiamato a svolgere un’attività essenziale per la perpetrazione degli illeciti, in quanto sono le attività criminali consumate in più di uno Stato che qualificano come transnazionale il gruppo criminale”. La persona offesa – precisa la Cassazione – aveva pagato un soggetto in Bangladesh per l’organizzazione del viaggio in Libia; nelle vicinanze di Tripoli, in un centro di detenzione, l’uomo era stato picchiato e torturato e poi venduto e trasportato in Italia. Evidenti gli elementi di transnazionalità che hanno portato la Cassazione a respingere il ricorso dell’indagato e a confermare l’impianto del Tribunale di Catania.

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