Il sistema di formazione obbligatoria deciso da un ordine professionale deve rispettare le regole di concorrenza Ue

Gli ordini professionali, in quanto associazioni di imprese, sono tenuti a rispettare le norme del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea in materia di concorrenza. Di conseguenza, non possono porre condizioni per l’esercizio dell’attività di formazione da parte di imprese ed enti esterni incompatibili con il diritto Ue. Lo ha stabilito la Corte di giustizia dell’Unione europea con la sentenza del 28 febbraio nella causa C-1/12 (C-1:12) destinata a incidere sul sistema di formazione professionale obbligatoria imposto da diversi ordini professionali in tutta Europa. La Corte di Lussemburgo è stata chiamata a pronunciarsi in via pregiudiziale su rinvio dei giudici portoghesi alle prese con un ricorso dell’Ordine degli esperti contabili (OTOC) al quale l’Autorità garante della concorrenza del Portogallo aveva comminato una sanzione dopo aver accertato una distorsione della concorrenza. Questo perché l’Ordine, con un regolamento che stabiliva l’obbligo per gli iscritti di conseguire 35 crediti di formazione in due anni, articolati in formazione istituzionale e professionale, aveva anche disposto che la formazione professionale potesse essere erogata, oltre che dallo stesso Ordine (che ha l’esclusiva per quella istituzionale), da organismi accreditati dall’Ordine, previo pagamento di una tassa. In pratica, senza il via libera dell’Ordine l’attività di formazione non poteva essere esercitata almeno per il conseguimento dei crediti formativi. Stabilito, in linea con la precedente prassi giurisprudenziale, che le regole di concorrenza del Trattato si applicano anche agli ordini professionali che devono essere considerati come associazioni di imprese se i suoi membri svolgono un’attività economica, la Corte ha precisato che nel momento in cui l’Ordine adotta un regolamento sul sistema di formazione “non esercita prerogative tipiche dei pubblici poteri, ma piuttosto appare come l’organo di regolamentazione di una professione il cui esercizio costituisce, peraltro, un’attività economica”. Né ha rilievo, ai fini della qualificazione, che l’Ordine sia disciplinato da uno statuto di diritto pubblico. Detto questo, è evidente che il regolamento dell’Ordine può pregiudicare il commercio tra Stati membri nel mercato della formazione, condizionando le scelte di enti con sede in altri Paesi. Inoltre, secondo i giudici Ue, l’Ordine, al quale è attribuita in via esclusiva “una parte non trascurabile della formazione obbligatoria degli esperti contabili”, aveva artificiosamente segmentato il mercato della formazione con un vantaggio concorrenziale. La Corte, poi, non è convinta dal meccanismo di previa autorizzazione allo svolgimento dell’attività di formazione per i contabili accentrato nelle mani dell’Ordine. Per la Corte di giustizia, poiché gli organismi che intendono svolgere l’attività devono ottenere una preliminare autorizzazione e devono pagare una tassa di iscrizione, con un potere dell’OTOC di respingere l’istanza, è certa una violazione del Trattato. Questo meccanismo comporta una violazione della parità di trattamento tra operatori economici perché solo gli organismi di formazione sono sottoposti a una procedura di omologazione che invece non riguarda l’attività formativa dell’OTOC. In pratica, l’Ordine, associazione di imprese che svolge anche attività formativa, impone regole ad altri concorrenti, sottraendosi però ad esse.

La pronuncia dovrà essere considerata attentamente nell’adozione dei regolamenti previsti dalla legge italiana dPR 7 agosto 2012 n. 137 sulla riforma degli ordinamenti professionali. L’articolo 7, infatti, stabilita l’obbligatorietà della formazione, attribuisce la competenza all’attivazione dei corsi di formazione a Ordini e collegi nonché ad associazioni di iscritti agli albi o altri soggetti autorizzati dagli Ordini, prevedendo che i regolamenti attuativi siano sottoposti all’esame del ministro vigilante che esprimerà il proprio parere. Una differenza rispetto al sistema portoghese, che dovrebbe limitare l’incidenza della sentenza della Corte di giustizia sul quadro italiano, è costituito dall’obbligo del consiglio nazionale dell’ordine di trasmettere “motivata proposta di delibera [sulle autorizzazioni allo svolgimento di corsi] al ministro vigilante al fine di acquisire il parere vincolante dello stesso”. Questo potrebbe condurre a ritenere che il sistema italiano sia compatibile con le norme Ue sulla libera concorrenza. Analogo discorso sembra più difficile per gli avvocati. L’articolo 11 della legge n. 247/2012 sulla nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense (in Guida al diritto n. 6/2013, p. 10 ss.) ha codificato il principio della formazione continua ma la norma attribuisce al Consiglio nazionale forense il potere di disciplinare “le modalità e le condizioni per l’assolvimento dell’obbligo di aggiornamento da parte degli iscritti e per la gestione e l’organizzazione dell’attività di aggiornamento a cura degli ordini territoriali, delle associazioni forensi e di terzi”, escludendo ogni fine di lucro di detta attività. L’accentramento del potere di regolamentazione sulla formazione continua nell’Ordine potrebbe presentare gli stessi profili di incompatibilità ravvisati dalla Corte di Lussemburgo nella sentenza del 28 febbraio 2013 proprio perché il Consiglio nazionale forense, in quanto associazione di imprese, si troverebbe a regolare la gestione e l’organizzazione dell’attività di aggiornamento, fornendola esso stesso. La circostanza che il par. 4 dell’articolo 11 escluda che si tratti di attività commerciale e stabilisca che essa non possa avere fini di lucro è inidonea ad assicurare l’inapplicabilità delle regole Ue sulla libera concorrenza.

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