Indagini lacunose. Assenza di segni di violenza come motivo per chiudere il caso. Nessuna risposta in sede giudiziaria a tutela di una donna vittima di stupro. Un insieme di fattori che ha portato la Corte europea dei diritti dell’uomo a condannare la Romania per violazione dell’articolo 3 della Convenzione che fissa il divieto di trattamenti inumani e degradanti e dell’articolo 8 che garantisce il diritto al rispetto della vita privata e familiare (ricorso n. 49089/10, CASE OF E.B. v. ROMANIA ). Le autorità rumene – osserva la Corte – non hanno indagato in modo adeguato sulla denuncia di stupro presentata da una donna, archiviando in sostanza la vicenda per il solo fatto che la donna non aveva chiesto aiuto e che il corpo non mostrava segni di violenza. Comportamenti contrari alla Convenzione poiché le autorità nazionali non possono basare l’accertamento della violenza sessuale sulla prova di una resistenza fisica, che è del tutto irrilevante. A rivolgersi a Strasburgo era stata una donna rumena, violentata mentre faceva ritorno a casa. Tornata nella sua abitazione, dopo aver parlato con il marito, aveva denunciato l’uomo che l’aveva violentata e che, per di più, aveva precedenti per lo stesso reato. Le indagini erano state insufficienti e l’uomo non era stato processato. Per la Corte europea le autorità nazionali non hanno svolto indagini adeguate, non hanno sentito testimoni e hanno basato l’attività di accertamento del reato solo sull’assenza di resistenza fisica da parte della vittima. La donna, poi, non era stata informata della possibilità di avvalersi di un supporto e, così, era del tutto mancato un intervento, richiesto dalla Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e il contrasto alla violenza sulle donne e alla violenza domestica, di assistenza alle vittime che, nel caso di specie, andava rafforzato considerando la vulnerabilità della donna. Di qui la condanna alla Romania che non ha rispettato il suo obbligo positivo di predisporre un sistema penale adeguato in grado di punire ogni forma di abuso sessuale, garantendo un’adeguata protezione alle vittime. Accertata la violazione dell’articolo 3 e dell’articolo 8, la Corte ha accolto integralmente la richiesta di indennizzo presentata dalla donna per i danni non patrimoniali pari a 12mila euro.
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