Corte Ue: gli Stati membri devono riconoscere il diritto di soggiorno alle coppie dello stesso sesso – Member States must recognize residence rights of same-sex spouses, ECJ rules

Il no al matrimonio tra coppie dello stesso sesso fissato nell’ordinamento interno non può impedire l’esercizio del diritto alla libera circolazione e di soggiorno di cittadini Ue. E’ il principio stabilito dalla Corte di giustizia dell’Unione europea nella sentenza del 5 giugno relativa alla causa C-673/16 (Coman, C-673:16). A rivolgersi agli eurogiudici è stata Corte costituzionale rumena alle prese con una controversia tra un cittadino rumeno, che si era sposato a Bruxelles con uno statunitense, e l’Ispettorato generale per l’immigrazione. Quest’ultimo aveva respinto la richiesta relativa alla concessione dei documenti necessari per consentire al coniuge del cittadino Ue di lavorare in Romania per un periodo superiore a 3 mesi, adducendo come motivo la circostanza che l’ordinamento rumeno non prevede il matrimonio same sex. La Corte Ue, chiarito che le scelte legislative nazionali non possono violare il diritto primario di circolare e soggiornare liberamente nello spazio europeo, ha affermato che i cittadini dell’Unione hanno il diritto di condurre una normale vita familiare nello Stato membro ospitante così come nel proprio Paese in caso di ritorno. Questo diritto va assicurato anche al coniuge cittadino Ue sposo di un cittadino extra-Ue, il quale dopo essersi spostato in un altro Stato membro fa ritorno nel suo Paese e intende vivere lì con il marito. Ed invero, tra i familiari, la direttiva 2004/38, applicabile per analogia, include il coniuge. Questa nozione – osserva la Corte – ha carattere neutro dal punto di vista del genere, con la conseguenza che può comprendere anche il partner dello stesso sesso. La direttiva, inoltre, non rinvia, per la qualificazione della nozione di coniuge, agli ordinamenti nazionali a differenza di quanto avviene per interpretare la nozione di partner di un’unione registrata, con la conseguenza che è da escludere ogni rinvio agli ordinamenti nazionali. Pertanto, la Corte afferma che  uno Stato membro “non può invocare la propria normativa nazionale per opporsi al riconoscimento, sul proprio territorio” del matrimonio concluso con un coniuge dello stesso sesso. Tuttavia, la Corte precisa che questo vale “ai soli fini della concessione di un diritto di soggiorno derivato a un cittadino di uno Stato terzo”. Gli Stati membri sono liberi di prevedere o meno il matrimonio tra coppie dello stesso sesso, ma devono assicurare al cittadino Ue l’esercizio del diritto alla libera circolazione e di soggiorno secondo l’articolo 21 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. A ciò si aggiunga che la competenza statale va esercitata nel rispetto della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione e del diritto al rispetto della vita privata e familiare garantito dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Per evitare poi aggiramenti da parte degli Stati, la Corte ha chiarito che le autorità nazionali non possono invocare motivi di ordine pubblico nonché il diritto di preservare l’istituto del matrimonio come previsto nella normativa interna. Se è vero che il diritto Ue rispetta l’identità nazionale degli Stati membri, è anche vero che l’ordine pubblico, utilizzato per bloccare il riconoscimento del matrimonio, non può essere invocato se non in casi eccezionali, in presenza di una minaccia “reale e sufficientemente grave” per uno degli interessi fondamentali della società, situazione che certo non si verifica in questi casi.

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