Una donna incinta che lascia il lavoro per motivi legati al suo stato deve essere qualificata, in base al diritto dell’Unione europea, come lavoratrice. Di conseguenza, la donna ha diritto a ogni indennità integrativa decisa dall’ordinamento interno a vantaggio dei lavoratori. E’ il principio fissato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea nella sentenza depositata ieri il 19 giugno (causa C-507/12, Saint Prix, C-507), che segna un punto a favore del rafforzamento dei diritti delle lavoratrici in gravidanza e della loro libera circolazione nello spazio Ue. Questi i fatti. Una cittadina francese era stata assunta come interinale in una scuola materna inglese. Al sesto mese di gravidanza aveva dovuto abbandonare l’impiego e aveva cercato un lavoro meno faticoso, senza trovarlo. La donna aveva presentato la domanda di indennità integrativa del reddito, ma l’istanza non era stata accolta. I giudici nazionali avevano respinto il suo ricorso. La Corte suprema inglese, prima di pronunciarsi, ha chiamato in aiuto Lussemburgo chiedendo chiarimenti sulla direttiva 2004/38 sul diritto dei cittadini dell’Unione europea e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri (recepita dall’Italia con il Dlgs 30/2007, modificato dal Dlgs 32/2008 e poi dalla legge 129/2011). Prima di tutto – osservano gli eurogiudici – la direttiva, che mira a superare un “approccio settoriale e frammentario del diritto fondamentale e individuale” alla libera circolazione, attribuisce la qualità di lavoratore, seppure in alcuni casi particolari, anche a coloro che sono temporaneamente inabili al lavoro. L’articolo 7 della direttiva, che non ha carattere esaustivo, include, infatti, tra i lavoratori coloro che sono incorsi in una malattia o in un infortunio, che si trovano in uno stato di disoccupazione involontaria o che seguono un corso di formazione professionale. E’ vero che non è previsto in modo espresso il caso di una donna che abbia limitazioni fisiche legate alla gravidanza o al periodo successivo al parto e che la stessa gravidanza, in base alla consolidata giurisprudenza di Lussemburgo, non può certo essere assimilabile a una patologia, ma in via interpretativa la Corte arriva ad attribuire lo status anche alla donna in gravidanza che non può lavorare. Questo perché – precisa Lussemburgo – la nozione di lavoratore prevista nel Trattato Ue (articolo 45), non può certo essere limitata da un atto di diritto derivato. Pertanto, la donna che si è avvalsa della libertà di circolazione e che ha svolto in modo effettivo un’attività lavorativa in un altro Stato membro, rientra nella sfera di protezione dell’articolo 45 del Trattato. Questo vuol dire che, in taluni casi, anche se un rapporto di lavoro è cessato il cittadino Ue ha diritto a beneficiare dello status in esame. Senza dimenticare che la donna aveva ripreso a lavorare a 3 mesi dal parto, rimanendo in Inghilterra. Da qui la Corte Ue fa discendere un principio generale e cioé che, anche se per un periodo una persona non è “effettivamente presente sul mercato del lavoro dello Stato membro ospitante”, essa non cessa di far parte del mercato se riprende il lavoro o trova un altro impiego in termini ragionevoli. Su questo criterio, poi, la Corte passa la valutazione ai giudici nazionali che devono evitare soluzioni che possano dissuadere i lavoratori dall’esercizio del diritto alla libertà di circolazione.
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