Il datore di lavoro può dire no al velo islamico in azienda

La decisione del datore di lavoro di vietare alle proprie dipendenti l’utilizzo del velo islamico in azienda non è contrario al diritto Ue se il no a mostrare segni religiosi è applicato in modo generale e indiscriminato. Questo perché la politica di neutralità della società rispetto al credo religioso, se applicata verso tutti i lavoratori senza discriminazioni, legittima il divieto e non provoca una violazione della libertà di credo. Lo ha stabilito la Corte di giustizia dell’Unione europea con la sentenza depositata il 14 marzo (causa C-157/15, Achbita, C-157:15). La questione pregiudiziale è stata sollevata dalla Corte di cassazione belga alle prese con una controversia tra un’impresa, che forniva servizi di sicurezza e di vigilanza e una dipendente, licenziata perché si era rifiutata di lavorare priva del velo islamico. La società belga aveva vietato ai dipendenti di indossare sul luogo di lavoro “segni visibili delle convinzioni politiche, filosofiche o religiosi”, ma la donna aveva comunicato ai superiori di voler indossare il velo durante l’orario di lavoro, malgrado l’introduzione di una modifica al regolamento interno con la quale era vietato l’utilizzo di segni visibili. La donna era stata licenziata, ma i giudici nazionali avevano ritenuto legittimo il provvedimento La Cassazione, prima di decidere, ha chiamato in aiuto la Corte Ue che, di fatto, ha dato ragione all’azienda.

Prima di tutto, gli eurogiudici hanno delineato il perimetro della nozione di religione fissata nella direttiva 2000/78 sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (recepita in Italia con Dlgs n. 216/2003) che va interpretata – osserva Lussemburgo – tenendo conto dell’articolo 9 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, delle tradizioni costituzionali comuni e della Carta dei diritti fondamentali. Di conseguenza, la nozione di religione, che ha un’accezione ampia, include il diritto di manifestare il proprio credo proprio perché l’articolo 1 della direttiva include il forum internum e quello externum, ossia la manifestazione pubblica della fede. Detto questo, però, la Corte Ue ammette il diritto di porre limitazioni alla manifestazione del credo sul posto di lavoro se l’azienda persegue un obiettivo legittimo come l’affermazione di una politica di neutralità politica, filosofica o religiosa. Si tratta – scrive la Corte – di una finalità legittima che può giustificare alcune limitazioni all’esternazione del credo. A patto, però, che le limitazioni riguardino tutti i dipendenti, “imponendo loro, in maniera generale ed indiscriminata, segnatamente una neutralità di abbigliamento”, che può portare al divieto di indossare segni religiosi. Se il principio di parità di trattamento è rispettato, il datore di lavoro non commette una discriminazione diretta e, quindi, agisce in modo conforme al diritto Ue. Se, invece, la regola interna che fissa il divieto di indossare segni visibili vale solo con riferimento ad alcuni dipendenti il datore di lavoro incorre in una violazione del diritto dell’Unione. Nel caso arrivato a Lussemburgo, però, il divieto riguardava tutti i dipendenti e quindi, la norma trattava in modo identico i lavoratori ai quali era imposto il rispetto del principio di neutralità. La Corte, in ogni caso, lascia un margine di intervento ai giudici nazionali chiamati a verificare se una norma apparentemente neutra non comporti, nell’applicazione concreta, una situazione di particolare svantaggio per coloro che aderiscono a una determinata religione o ideologia. Esclusa l’esistenza di una discriminazione diretta, Lussemburgo ha ammesso che, anche azioni che in sé possono costituire una disparità di trattamento, possono essere consentite se giustificate in modo oggettivo da una finalità legittima e se i mezzi impiegati sono appropriati e necessari. E proprio tra le finalità legittime, la Corte mette in primo piano l’esigenza, per un datore di lavoro, di adottare “una politica di neutralità politica, filosofica o religiosa”, per dare ai propri clienti un segno della libertà di impresa garantita anche dall’articolo 16 della Carta dei diritti fondamentali. Un’esigenza che Lussemburgo tutela soprattutto quando il datore di lavoro agisce con misure proporzionali, ad esempio ponendo limiti all’utilizzo di segni visibili quando si tratta di dipendenti che entrano in contatto con i clienti dell’azienda. In linea, sul punto, con quanto stabilito in passato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo che ha anche dato il via libera alle legislazioni nazionali che vietano di indossare il velo islamico in luoghi di lavoro pubblico.

Sempre il 14 marzo, nella causa C-188/15 (C-188:15), la Corte Ue ha invece bocciato il comportamento di un datore di lavoro che aveva licenziato una dipendente per assecondare un cliente il quale non voleva che i servizi dell’azienda fossero forniti da una lavoratrice che indossava il velo islamico. In questo caso, infatti, non è stato dimostrato che l’assenza del velo era un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa perché sono state incluse considerazioni soggettive “quali la volontà del datore di lavoro di tener conto dei desideri particolari del cliente”.

Si vedano i post http://www.marinacastellaneta.it/blog/velo-islamico-principio-di-neutralita-da-garantire-nello-spazio-ue.html e http://www.marinacastellaneta.it/blog/divieto-di-velo-islamico-sdoganato-a-strasburgo.html

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