La Corte Ue interviene sulle norme imperative da applicare nei contratti di lavoro

La Corte di giustizia dell’Unione europea traccia i criteri per assicurare il rispetto delle norme imperative nei contratti di lavoro. Con la sentenza del 15 marzo 2011 (causa C-29/10, Koelzsch, http://curia.europa.eu/jurisp/cgi-bin/form.pl?lang=it&jurcdj=jurcdj&newform=newform&docj=docj&docop=docop&docnoj=docnoj&typeord=ALLTYP&numaff=&ddatefs=10&mdatefs=3&ydatefs=2011&ddatefe=17&mdatefe=3&ydatefe=2011&nomusuel=&domaine=&mots=&resmax=100&Submit=Rechercher) la Corte Ue ha stabilito che se un lavoratore svolge la sua attività in più Stati membri, anche se i contraenti hanno scelto una specifica legge da applicare al contratto di lavoro, al dipendente dovrà essere garantito il rispetto delle norme imperative dello Stato in cui adempie alla parte sostanziale dei suoi obblighi nei confronti del datore di lavoro, in linea con quanto fissato dalla Convenzione di Roma sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali del 1980, sostituita dal regolamento n. 593/2008.

La vicenda arrivata a Lussemburgo ha preso il via da una controversia tra un conducente di automezzi pesanti residente in Germania e la filiale di una società di diritto danese che lo aveva licenziato. Il lavoratore aveva impugnato il provvedimento, invocando il rispetto delle norme tedesche che vietano il licenziamento dei membri del consiglio aziendale del quale faceva parte. I giudici lussemburghesi al quale il lavoratore si era rivolto avevano respinto la richiesta sostenendo che le parti  avevano indicato come legge applicabile al contratto di lavoro il diritto del Lussemburgo. Nessuno spazio, a loro dire, per il diritto tedesco. Una tesi che non ha convinto la Corte Ue proprio in ragione della Convenzione di Roma sulle obbligazioni contrattuali che garantisce il rispetto della volontà delle parti che possono designare la legge da applicare al contratto ma, proprio con l’obiettivo di tutelare il lavoratore parte debole del contratto, stabilisce che la scelta di legge non può escludere l’applicazione delle norme giuridiche che disciplinerebbero il contratto in mancanza di scelta. Che, nel caso dei contratti di lavoro, è quella dello Stato in cui il dipendente svolge abitualmente il suo lavoro anche se inviato temporaneamente in altri Stati o quella dello Stato in cui si trova la sede che lo ha assunto.

E’ vero che nei contratti di trasporto internazionale è più difficile individuare la legge dello Stato in cui si svolge abitualmente l’attività perché il conducente di un automezzo si sposta tra diversi Paesi, ma il giudice nazionale deve, in prima battuta, considerare questa legge, tenendo conto dei criteri forniti dalla Corte Ue. Tanto più che – osserva la Corte – propria per tutelare la parte debole del contratto il criterio del Paese dell’esecuzione abituale del lavoro deve essere interpretato in modo ampio, comprendendo sia il luogo “in cui o a partire dal quale il lavoratore esercita effettivamente le proprie attività professionali”, sia quello in cui svolge la maggior parte delle attività. In questa funzione di accertamento, i giudici interni, proprio tenendo conto della particolare natura del settore dei trasporti internazionali, devono considerare il luogo a partire dal quale il lavoratore compie le missioni di trasporto, riceve le istruzioni, organizza il lavoro, in cui si trovano gli strumenti di lavoro, nonché quello di scarico della merce, quello in cui viene effettuato il trasporto e lo Stato in cui ritorna finite le sue missioni.

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