Inchiesta inefficace sulla morte di un operaio dell’Ilva: l’Italia condannata a Strasburgo

La Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza Laterza e D’Errico, depositata il 27 marzo (ricorso n. 30336, AFFAIRE c. Italie) ha condannato l’Italia per violazione dell’articolo 2 che assicurare il diritto alla vita in quanto non ha condotto inchieste efficaci per accertare le cause della morte di un operario dell’Ilva di Taranto. Il ricorso era stato presentato dalla moglie e dal figlio di un operaio morto per un tumore al polmone dopo aver lavorato per lunghi anni, dal 1980 al 2004, nell’industria siderurgica dell’Ilva. Sul piano interno, malgrado una denuncia, i ricorrenti non erano riusciti ad ottenere giustizia perché non era stato accertato un diretto legame tra esposizione a sostanze tossiche sul luogo di lavoro, incluso amianto e diossina e la malattia dell’operaio. In realtà, in diverse perizie gli esperti avevano evidenziato che le indicate sostanze erano in grado di causare un tumore polmonare e in molti rapporti era stato provato l’aumento di morti per quella patologia proprio tra i lavoratori dell’industria così come tra coloro che vivevano a ridosso della fabbrica. Tuttavia, in altri atti si riteneva che non fosse provata l’origine professionale della malattia e, di conseguenza, non era possibile identificare i responsabili delle violazioni delle regole di sicurezza. Malgrado l’opposizione dei congiunti dell’uomo deceduto, il giudice per le indagini preliminari aveva confermato l’archiviazione, pur sottolineando che, malgrado il tabagismo potesse aver contribuito alla malattia, non poteva essere esclusa l’origine professionale della patologia che aveva condotto alla morte dell’uomo.

La Corte europea, in primo luogo, ha respinto l’eccezione di irricevibilità del ricorso formulata dal Governo italiano secondo il quale i ricorrenti avrebbero dovuto avviare un’azione civile per il risarcimento dei danni sia contro le autorità sia contro gli amministratori della società per le omissioni relative all’inquinamento ambientale. Sul punto, la Corte ha chiarito che se le vittime scelgono una strada interna, come quella penale, piuttosto che civile non si può chiedere in aggiunta di perseguire un altro percorso. Per quanto riguarda la violazione dell’articolo 2, la Corte ha sottolineato che tale norma impone sugli Stati non solo obblighi positivi di carattere sostanziale, ma anche obblighi procedurali al fine di accertare la violazione del diritto nel contesto di un sistema giudiziario effettivo e indipendente. Gli Stati, quindi, devono accertare i fatti e individuare i responsabili della violazione anche assicurando una riparazione adeguata alla vittima. È, infatti, insito nell’articolo 2 un esame scrupoloso quanto al rispetto del diritto alla vita e, quindi, le autorità giudiziarie devono fare fatto tutto ciò che si può “ragionevolmente attendere per identificare i responsabili di eventuali violazioni”.  In diverse occasioni, i giudici interni avevano affermato la responsabilità dei dirigenti di alcune aziende per le malattie di lavoratori esposti all’amianto, mentre, nel caso in esame, il procedimento è stato chiuso senza che ci si basasse su pareri di esperti relativi a studi scientifici sul campo che, se contrastanti, avrebbero dovuto portare a un ulteriore approfondimento. L’archiviazione è stata così decisa sulla base di documenti forse inadeguati, ma il giudice interno avrebbe potuto valutare altri documenti se le relazioni fornite dai ricorrenti non risultavano sufficienti. A causa delle lacune evidenziate nel procedimento interno, la Corte ha accertato che “i tribunali interni non hanno compiuto uno sforzo sufficiente per accertare i fatti della causa e che la decisione di chiudere l’indagine non era stata adeguatamente motivata”. Pertanto, l’Italia ha violato l’articolo 2 sotto il profilo procedurale.

Nessun commento

Aggiungi un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *