Direttiva Mifid: la qualificazione del contratto di mutuo non cambia solo perché è previsto in valuta estera

La sola previsione di operazioni di cambio in valuta estera, incluse in un contratto di mutuo per l’acquisto di un bene mobile, non cambia la natura del contratto, che non si trasforma in un servizio o un’attività di investimento. Con la conseguenza che non va applicata la direttiva 2004/39 relativa ai mercati degli strumenti finanziari (recepita in Italia con Dlgs n. 164/2007) perché le clausole del contratto di mutuo relative alla conversione di una valuta estera sono unicamente una modalità indissociabile di esecuzione. Sull’ente creditizio, quindi, – ha chiarito la Corte di giustizia dell’Unione europea con la sentenza depositata il 3 dicembre nella causa C-312/14 (C-312:14), su rinvio del giudice del distretto di Ráckeve (Ungheria) – non gravano gli obblighi sulla valutazione “se il servizio da prestare sia adeguato o adatto”. La controversia sul piano nazionale riguardava due coniugi che avevano stipulato un contratto di credito al consumo (considerato nel diritto interno come contratto di mutuo in valuta estera), e un istituto di credito. Secondo i coniugi i contratti di credito denominati in valuta estera dovevano rientrare nel sistema del mercato dei capitali con la contestuale applicazione degli obblighi posti a carico degli enti creditizi dalla direttiva 2004/39. La Corte di giustizia ha chiarito che l’oggetto del contratto è il mutuo da erogare, mentre le operazioni della banca di conversione in valuta nazionale degli importi denominati in valuta estera, al fine di calcolare le somme da concedere in prestito e i rimborsi, hanno carattere accessorio. Questo vuol dire – osserva la Corte – che quelle operazioni non possono rientrare nella sezione A della direttiva 2004/39, la quale elenca i servizi e le attività di investimento. L’operazione di cambio, infatti, era limitata unicamente alla conversione nella valuta nazionale degli importi oggetto del prestito indicati in valuta estera (moneta di conto). E’ evidente che in una simile situazione manca del tutto la volontà di realizzare un investimento perché il “consumatore mira solamente ad ottenere fondi in previsione dell’acquisto di un bene di consumo o della prestazione di un servizio”, senza alcuna intenzione o fine speculativo. Esclusa anche la possibilità di considerare le operazioni di cambio come “negoziazione per conto proprio” che è, in ogni caso, nell’ottica della direttiva, collegata ad operazioni riguardanti strumenti finanziari. Tra l’altro – prosegue la Corte – le operazioni di cambio sono connesse non a un servizio di investimento che, come tale rientra nell’ambito di applicazione della direttiva 2004/39, ma a un’operazione che in sé non è uno strumento finanziario e che non rientra tra quelle elencate nell’allegato I della direttiva che si occupa di contratto finanziario a termine standardizzato (future).

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