Fine pena mai contrario alla CEDU – L’Italia condannata a Strasburgo

E’ la prima volta, ma non sarà certo l’unica o l’ultima se il legislatore non mette mano alla riforma. La Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza depositata il 13 giugno nel caso Viola contro Italia (ricorso n. 77633/16, AFFAIRE MARCELLO VIOLA c. ITALIE (N? 2), ha condannato lo Stato in causa perché il carcere ostativo, disposto in base l’articolo 22 c.p. e agli articoli 4-bis e 58-ter della legge sull’ordinamento penitenziario, contrasta con l’articolo 3 della Convenzione che vieta i trattamenti inumani e degradanti proprio perché una misura del genere non consente il rispetto della dignità umana che è al centro dell’intera Convenzione europea. A rivolgersi alla Corte era stato un cittadino italiano detenuto nel carcere di Sulmona per reati di associazione di stampo mafioso, omicidio e altri crimini. Condannato all’ergastolo, l’uomo era stato anche sottoposto, seppure per un periodo limitato, al 41 bis e, inoltre, erano state respinte tutte le sue richieste di permesso. Di qui il ricorso alla Corte europea che ha analizzato la normativa interna in base alla quale è preclusa, per detenuti condannati per quei reati e che non hanno cooperato con la giustizia, la possibilità di avere permessi, libertà condizionale o l’accesso a riduzioni di pena, così come il ricorso a misure alternative. Proprio lo stretto legame tra benefici e collaborazione con la giustizia non ha convinto la Corte. Questo perché la mancanza di collaborazione non può essere considerata in modo automatico come scelta volontaria e libera, tale da indicare una mancata rieducazione del condannato. Pertanto, l’assenza di collaborazione con la giustizia non può condurre a una presunzione automatica di pericolosità sociale. E’ vero – precisa la Corte, ricordando il caso Garagin e la sentenza Scoppola – che il carcere a vita può essere considerato, in taluni casi, compatibile con la Convenzione, ma questo solo qualora ci siano delle prospettive di reinserimento, con la possibilità per il condannato di ottenere la scarcerazione, sulla base di taluni presupposti. Di qui, anche in linea con la sentenza Murray, la conclusione che il carcere ostativo è incompatibile con l’articolo 3 della Convenzione. D’altra parte, lo stesso sistema italiano, nell’applicare il meccanismo di progressione trattamentale, con la previsione di permessi premio, libertà condizionale, semilibertà, al fine di accompagnare il detenuto verso l’uscita, punta a realizzare il reinserimento nella società. Senza dimenticare – osserva la Corte (par. 125) – che una persona condannata non ha la stessa personalità dal momento in cui commette il reato fino al termine della pena, tenendo conto che proprio la pena può condurre il detenuto a rivedere il proprio percorso criminale e a compiere passi verso la ricostruzione della propria personalità. Così, le autorità nazionali devono garantire che queste circostanze siano considerate per favorire il reinserimento nella società. Nel condannare l’Italia, anche alla luce dei numerosi ricorsi pendenti e della circostanza che si tratta di un problema strutturale, Strasburgo ha chiesto una riforma del regime dell’ergastolo ostativo garantendo la possibilità di un riesame della pena e l’eliminazione di automatismi, al fine di assicurare una reale valutazione del comportamento del detenuto. Detto questo, però, alla luce del margine di apprezzamento concesso agli Stati, la Corte ha precisato che la possibilità del riesame del carcere a vita non determina che venga ottenuta la scarcerazione se il condannato costituisce un pericolo per la società. 

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