Fotografie e hate speech: gli Stati sono obbligati a svolgere indagini effettive per combattere la diffusione di messaggi discriminatori

L’hate speech va combattuto anche con indagini effettive e sanzioni ai responsabili. Lo ha precisato il Comitato Onu sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale (CERD) nel suo parere conclusivo del 12 gennaio 2023 (CERD/C/108/D62/2018, CERD hate speech) a seguito di una petizione presentata da Momodou Jallow, ex portavoce dell’Associazione nazionale afro-svedese e coordinatore nazionale del Network europeo contro il razzismo in Svezia. Il Comitato si occupa del monitoraggio della Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale adottata il 21 dicembre 1965 (ratificata anche dall’Italia con legge n. 654/1975) ed è competente a ricevere ricorsi/petizioni individuali. In questo caso, il ricorrente sosteneva che, durante una mostra d’arte sponsorizzata dal Partito popolare danese, nella sede del Parlamento e in una galleria privata, fosse stata esposta un’immagine con il ricorrente e altre due persone di colore appese ad un ponte con la scritta “hang on, afrofobians “resistete afrofobici” e un’altra con il ricorrente rappresentato come uno schiavo fuggito dal suo “padrone”, con un’altra scritta razzista. In Svezia gli autori e i divulgatori di queste immagini erano stati condannati per incitamento all’odio mentre a Copenaghen nulla era successo. A fronte della denuncia di Jallow, infatti, il procuratore aveva chiuso il procedimento invocando l’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che assicura il diritto alla libertà di espressione come chiave di lettura  dell’articolo 266 del codice penale, che punisce l’incitamento all’odio. L’uomo aveva deciso di rivolgersi, sin da 2018, al Comitato sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale il quale, accertato che le immagini erano una manifestazione d’odio, classificabile come hate speech, ha ritenuto che la decisione di fermare le indagini costituiva una violazione delle norme sul divieto di incitamento alla discriminazione razziale (articolo 4). Il Comitato, sottolineata la necessità di assicurare un giusto bilanciamento tra i diritti in gioco, ha stabilito che nel caso in esame era evidente la volontà di diffondere messaggi razzisti, volti ad umiliare le persone coinvolte, contribuendo ad incitare alla violenza. Inoltre, la scelta di ritrarre “black people and members of the Roma community” in modo degradante aveva l’obiettivo di colpire anche altri membri di un gruppo. Di conseguenza, l’assenza di risposte, proprio per la decisione di chiudere il procedimento penale, ha determinato una violazione della Convenzione perché le autorità nazionali non hanno svolto indagini effettive sulla violazione della Convenzione, come imposto dell’articolo 4 della stessa Convenzione che richiede agli Stati contraenti di condannare ogni atto che si ispira a teorie basate sulla superiorità della razza, anche dichiarando punibili atti di diffusione di idee basate sulla superiorità o sull’odio razziale. Sul punto, il Comitato precisa che il fatto che le autorità nazionali aprano un’indagine e decidano di non proseguire il caso dinanzi a un organo giurisdizionale non implica automaticamente una violazione della Convenzione, ma certamente la mera apertura di un’inchiesta non è sufficiente per rispondere a una violazione convenzionale laddove si tratti di manifestazioni – come era avvenuto nel caso di specie con riguardo alle fotografie con messaggi razzisti – che possono essere classificate come atti di hate speech. L’assenza di risposte dinanzi a tali atti è una violazione della Convenzione e, quindi, la Danimarca deve presentare le scuse ai ricorrenti e concedere una riparazione. Inoltre, a Copenaghen è richiesta l’adozione di programmi formativi sulla prevenzione della discriminazione razziale indirizzati alle forze dell’ordine, a procuratori e a giudici.

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