Hotspot di Lampedusa: l’Italia condannata dalla Corte europea

Uno scenario ricorrente e destinato, salvo in caso di interventi strutturali, a ripetersi. Con la sentenza  depositata il 30 marzo nel caso J.A. e altri contro Italia (ricorso n. 21329/18, J.A. contro Italia) la Corte europea dei diritti dell’uomo ha accolto il ricorso di quattro cittadini tunisini che erano stati soccorsi nel Mar Mediterraneo, trasferiti nell’hotspot di Lampedusa e poi da qui espulsi verso la Tunisia. Nel centro, la situazione era al collasso, con sovraffollamento e condizioni igieniche non degne di un Paese civile. La Corte europea, investita della questione, ha accolto il ricorso e ha stabilito che l’Italia ha violato l’articolo 3 della Convenzione europea che vieta i trattamenti inumani o degradanti, l’articolo 5 sul diritto alla libertà personale, tenendo conto che i ricorrenti non potevano uscire dal centro e che il trattenimento di stranieri nell’hotspot non era previsto in alcuna legge, nonché dell’articolo 4 del Protocollo n. 4 che vieta le espulsioni collettive. Sui trattamenti inumani o degradanti nell’hotspot, neanche il Governo italiano ha contestato la situazione, ma ha solo provato a giustificarsi invocando la situazione di emergenza dovuta al grande numero di soccorsi in mare. Una linea di difesa respinta dalla Corte europea secondo la quale le difficoltà dovute al flusso di migranti e di richiedenti asilo non possono essere invocate per giustificare una violazione dell’articolo 3. Sulla violazione dell’articolo 5, la Corte ha rilevato che tale disposizione, che garantisce il diritto alla libertà personale, dispone che talune limitazioni possono essere previste nell’ambito di controlli in materia di immigrazione (art. 5, par. 1, lett. f), ma nel rispetto di talune garanzie convenzionali. Nel caso di specie, non era stato adottato alcun provvedimento di rimpatrio, né era stata avviata una procedura di espulsione con atti impugnabili in sede giurisdizionale, ma l’espulsione era stata eseguita direttamente con la consegna dei documenti e l’immediato imbarco su un aereo con destinazione Tunisia. Non solo. I ricorrenti prima dell’espulsione erano stati trattenuti nel centro di Lampedusa senza poter uscire, con una detenzione di circa dieci giorni non basata su un provvedimento giudiziario. Di conseguenza, la limitazione della libertà personale non aveva una base giuridica chiara e accessibile e gli interessati non erano stati informati delle ragioni alla base della privazione della libertà, con l’impossibilità di contestare un provvedimento in sede giurisdizionale. Inoltre, i decreti con i quali era stata comunicata l’espulsione erano atti stereotipati, con ciò provando che non si era proceduto a un esame individuale delle domande in contrasto, quindi, con il Protocollo n. 4. I decreti erano stati comunicati nello stesso momento in cui aveva avuto luogo l’esecuzione e durante il tragitto verso l’aeroporto i migranti non avevano potuto neanche telefonare perché erano stati privati del cellulare. Si è trattato così di un respingimento differito. Oltre ad aver accertato la violazione, la Corte ha disposto che lo Stato in causa versi a ogni vittima 8.500 euro a titolo di danni non patrimoniali.

Sulla situazione negli hotspot all’epoca dei fatti si veda il post http://www.marinacastellaneta.it/blog/parere-dellagenzia-ue-sui-diritti-fondamentali-sulla-situazione-negli-hotspots-fra-opinion-on-fundamental-rights-in-the-hotspots.html.

 

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