Giornalismo responsabile: incompatibili con la CEDU le condanne per diffamazione

Un altro tassello si aggiunge al mosaico costituito dalle numerose sentenze a tutela della libertà di stampa adottate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Strasburgo, il 3 aprile, ha condannato il Portogallo per violazione dell’articolo 10 della Convenzione europea (ricorso n. 37840/10, AFFAIRE AMORIM GIESTAS ET JESUS COSTA BORDALO c. PORTUGAL), chiarendo che se i giornalisti agiscono nel rispetto delle regole del giornalismo responsabile e forniscono notizie di interesse generale, accompagnate da opinioni che contribuiscono al dibattito pubblico, le autorità giurisdizionali nazionali non possono condannarli per diffamazione. Non solo. Ancora una volta Strasburgo ha chiarito che il carcere per i casi di diffamazione è incompatibile con la Convenzione, salvo in casi eccezionali come l’incitamento all’odio e ha fatto capire che le sanzioni penali sono in sé sproporzionate potendo avvalersi di rimedi sul piano civile. Alla Corte europea dei diritti dell’uomo si erano rivolti il direttore di un magazine e un giornalista, che avevano pubblicato alcuni articoli sulle donazioni di beni mobili a un’istituzione privata decise dal tribunale di São Pedro do Sul. Gli articoli evidenziavano il favoritismo e la discrezionalità nella scelta da parte del segretario del tribunale. Sia l’istituzione privata di beneficenza sia il segretario avevano agito dinanzi ai giudici penali per diffamazione. Era arrivata la condanna a una sanzione pecuniaria, alternativa ai sei mesi di carcere previsti nell’ordinamento portoghese. I giornalisti hanno fatto ricorso a Strasburgo che ha dato ragione su tutta la linea condannando il Portogallo e obbligando lo Stato in causa a un risarcimento per i danni materiali subiti dai cronisti pari a 11.753 euro. Per la Corte europea, la libertà di stampa costituisce una condizione essenziale per il progresso di una società, è un elemento fondamentale per ogni società democratica e per la realizzazione degli individui. Di conseguenza, ogni restrizione deve essere interpretata e applicata in modo restrittivo. Se il giornalista agisce in buona fede sulla base di fatti esatti (nel momento in cui li pubblica), fornendo informazioni nel rispetto delle norme deontologiche e contribuendo alla diffusione di notizie di interesse generale, gli Stati non possono limitare l’esercizio della libertà garantita dalla Convenzione. Tanto più -osserva la Corte – che, nel caso di specie, anche grazie all’editoriale che conteneva opinioni critiche, il giornalista aveva contribuito al dibattito di interesse generale. La Corte precisa altresì che i giudici nazionali devono effettuare la valutazione del rispetto dei fatti e del comportamento del giornalista nel momento in cui l’articolo è pubblicato e non nel momento in cui si svolge il processo penale. Un’ultima parola poi sulle sanzioni. Alcuni Stati, infatti, tra i quali l’Italia (precisiamo noi), continuano a prevedere il carcere per i giornalisti. Ora, già le sanzioni penali sono in sé sproporzionate, ma il carcere è, ancora di più, incompatibile con la Convenzione salvo in casi particolarmente gravi come l’incitamento all’odio. Di qui la condanna decisa dalla Corte che sarà inevitabile per ogni Stato che agisca senza tener conto dei parametri consolidati da Strasburgo. Con gravi danni, anche economici, sulle casse degli Stati che si ostinano a non mettere mano a modifiche legislative.

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