Interruzione di gravidanza e obiezione di coscienza: l’Italia viola la Carta sociale europea

In Italia, troppi gli obiettori di coscienza tra medici e personale sanitario che impediscono alle donne di ricorrere all’interruzione di gravidanza malgrado una legge dello Stato lo consenta. Le regioni non hanno adottato misure adeguate per contemperare il diritto delle donne a ricorrere all’aborto previsto nella legge n. 194 del 22 maggio 1978 “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza” e quello dei medici di astenersi da questa pratica per motivi di coscienza. Di conseguenza, l’Italia ha violato l’articolo 11 della Carta sociale europea che assicura il diritto alla salute perché ha mancato di mettere in atto le misure necessarie per consentire l’interruzione di gravidanza laddove siano presenti obiettori di coscienza. Lo ha stabilito, con decisione depositata il 10 marzo 2014, il Comitato europeo dei diritti sociali  nel ricorso n. 87/2012 presentato dalla Federazione internazionale per la pianificazione familiare (International Planned Parenthood Federation European Network, CC87Merits_en) che ha avuto ragione su tutta la linea. Per il Comitato, lo Stato non ha adottato le misure adeguate volte a sopperire alle astensioni nell’attuazione di un servizio medico ammesso dalla legge impedendo, in alcuni casi,  alle donne di abortire o comunque arrecando notevoli disagi anche psichici, di fatto costringendo le donne a trasferimenti in altri ospedali. Lo Stato, poi, è responsabile anche se toccava alle autorità regionali assicurare che l’attuazione dell’articolo 9 della legge n. 194, che ammette l’astensione del personale medico e ausiliario per ragioni di coscienza, non costituisse un impedimento del diritto delle donne di ricorrere all’aborto eventualmente prevedendo anche la mobilità del personale (in alcune regioni del Sud come la Basilicata la percentuale di obiettori arriva all’85,2%). Di qui la condanna all’Italia che non consente l’accesso a una misura come l’aborto classificata nella stessa legge italiana come trattamento medico. Lo Stato, quindi, che per di più ha violato il principio di non discriminazione, ha l’obbligo di individuare una soluzione prima del verificarsi dei fatti, così impedendo che una donna sia costretta a spostarsi in un’altra struttura sanitaria o addirittura in un altro Stato.

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