Per l’effettiva realizzazione di una società multietnica ogni individuo che decide di vivere in uno Stato diverso da quello di provenienza è tenuto a verificare che i propri comportamenti siano conformi ai principi vigenti nello Stato di destinazione. Va respinta, quindi, la tesi dello straniero che commette un reato in Italia e invoca la circostanza che determinate condotte sono ritenute “culturalmente accettabili” nel Paese di origine. E’ il principio stabilito dalla Corte di Cassazione, terza sezione penale, con sentenza n. 14960/15 depositata il 13 aprile (14960). E’ stato un cittadino marocchino a presentare ricorso in cassazione, dopo la condanna per maltrattamenti e violenza nei confronti della moglie. Secondo l’uomo, i giudici di merito non avevano considerato che i comportamenti da lui tenuti erano “espressione socioculturale” della sua identità e del luogo in cui era vissuto, in cui la moglie è considerata oggetto di esclusiva proprietà del marito. Per il ricorrente, al fine di evitare diseguaglianze e costringere gli stranieri a sottomettersi “a costumi da loro non conosciuti e spesso contrari alle loro abitudini”, i giudici avrebbero dovuto tener conto del diverso patrimonio culturale. Una tesi considerata inammissibile dalla Cassazione tanto più che l’articolo 3 della Costituzione attribuisce a ogni cittadino pari dignità e piena uguaglianza dinanzi alla legge, armonizzando “i comportamenti individuali rispondenti alla varietà delle culture in base al principio unificatore della centralità della persona umana, quale denominatore minimo comune per l’instaurazione di una società civile”. La sopravvivenza di una società multietnica – osserva la Cassazione – impone il rispetto delle regole giuridiche dello Stato di accoglienza, senza che sussista alcun diritto “di proseguire in condotte che, seppure ritenute culturalmente accettabili e quindi lecite secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, risultano oggettivamente incompatibili con le regole proprie della compagine sociale in cui ha scelto di vivere”. Esclusa l’esistenza di un simile diritto in base al diritto internazionale, la Corte di cassazione ha così giustamente negato l’esistenza di una scriminante e ha confermato la condanna.
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