La condanna in appello decisa dopo l’assoluzione in primo grado, fondata su testimonianze senza che vengano auditi nuovamente i testi, è contraria all’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che assicura il diritto a un processo equo. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza depositata il 29 giugno che è costata una nuova condanna all’Italia (ricorso n. 63446/13, AFFAIRE LOREFICE c. ITALIE). E’ stato un cittadino italiano a rivolgersi a Strasburgo. L’uomo era stato assolto in primo grado dall’accusa di estorsione e possesso di esplosivo ma, successivamente, era stato condannato perché la Corte di appello di Palermo aveva ritenuto attendibili i testi che, invece, i colleghi del tribunale avevano classificato come non credibili perché le deposizioni erano state imprecise, illogiche e incoerenti. Tuttavia, i giudici di appello non avevano sentito nuovamente i testi, basandosi sulle trascrizioni contenute nel fascicolo. Un procedimento che è contrario all’articolo 6 della Convenzione europea. Per Strasburgo, infatti, se è vero che le modalità di applicazione dell’articolo 6 nel processo di appello dipendono dalle caratteristiche e dalle funzioni del procedimento interno, è anche necessario che i giudici di secondo grado, chiamati a decidere sulla colpevolezza o l’innocenza dell’imputato, non giudichino “senza una valutazione diretta dei mezzi di prova”. Così non era stato nel caso di specie perché la Corte di appello si era pronunciata su una questione fattuale, ossia la credibilità delle deposizioni, senza sentire direttamente i testimoni pur valutandoli in modo opposto rispetto ai giudici del tribunale. Un iter contrario all’articolo 6 perché, osserva la Corte, la valutazione della credibilità dei testi è una procedura complessa che non può essere eseguita “con la semplice lettura del contenuto delle dichiarazioni già rese e trascritte in un verbale”. Anche la Corte di cassazione, sezioni unite, d’altra parte, con la sentenza n. 27620/2016 ha chiesto che, in caso di diversa valutazione dell’attendibilità dei testi, i giudici di appello rinnovino l’istruzione dibattimentale. Accertata la violazione, la Corte non solo ha imposto all’Italia di versare al ricorrente 6.500 euro per danni non patrimoniali ma, pur non indicandolo nel dispositivo, ha chiesto che non vengano lasciati in piedi gli effetti di un processo che si è svolto in violazione delle regole sull’equo processo. Così, lo Stato dovrebbe celebrare un nuovo processo o riaprire la procedura, richiesta che trova un ostacolo nel fatto che in Italia, a differenza di altri Stati, manca questa previsione.
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