Beni comuni globali e tutela della biodiversità: approvato il trattato sull’alto mare

Un accordo che arriva in un periodo storico in cui, tra crisi dovuta all’aggressione della Russia all’Ucraina e profonde divergenze sulla ripartizione delle responsabilità nella crisi climatica, nessuno avrebbe scommesso sulla conclusione di un trattato di portata così rilevante, che arriva dopo venti anni di negoziazione. La Convenzione sulla protezione della biodiversità marina nelle aree al di fuori della giurisdizione nazionale (BBNJ), adottata il 3 marzo e costituita da 70 articoli e due allegati (BBNJ, Agreement under the United Nations Convention on the Law of the Sea on the conservation and sustainable use of marine biological diversity of areas beyond national jurisdiction) ha come obiettivo principale l’istituzione di un quadro giuridico volto a preservare e assicurare una gestione sostenibile degli ecosistemi marini e delle specie marine negli oceani profondi ossia in spazi al di fuori della giurisdizione degli Stati. Si tratta di zone di alto mare essenziali per l’ambiente che, come già stabilito nella Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare, si trovano al di là della zona economica esclusiva ossia oltre le 200 miglia nautiche degli Stati costieri. Nella Convenzione del 1982 mancavano norme in grado di assicurare la preservazione dell’ecosistema in queste zone e di garantire una maggiore tutela degli Stati che non hanno le capacità tecniche di sfruttare in modo compatibile con la tutela dell’ambiente quegli spazi che, nel corso degli anni, sono così diventati terra di conquista degli Stati più avanzati dal punto di vista tecnologico, nonché di società multinazionali in grado di reperire e poi sfruttare quelle risorse. Il testo è stato concordato dopo varie sessioni iniziate all’indomani della risoluzione 72/249 adottata dall’Assemblea generale nel 2017 (risoluzione) con la quale era stato dato il via alla conferenza intergovernativa. Va detto che l’attuazione effettiva degli obblighi stabiliti nel Trattato dipende molto dell’attivazione di un meccanismo decisionale volto a istituire aree marine in cui vietare o limitare la pesca e in cui impedire o limitare lo sfruttamento dei fondali. Tra gli aspetti più rilevanti, vi è la protezione, prevista per la prima volta, delle risorse genetiche (sezione seconda) che costituiscono un patrimonio importante anche dal punto di vista economico. Tra i principi alla base del Trattato un’equa distribuzione delle risorse con benefici economici che dovranno essere condivisi tra Paesi industrializzati e in via di sviluppo, inclusi i Paesi privi di coste. Una specifica sezione, la IV, è dedicata alla valutazione di impatto ambientale, con l’articolo 23 che cerca di coordinare le nuove norme con quelle previste in altri trattati internazionali e con l’articolo 34 dedicato alla partecipazione degli stakeholders, incluse le popolazioni indigene.

Adesso, dopo l’adozione, si passa alla fase cruciale delle ratifiche degli Stati (per l’entrata in vigore ne occorrono 60) e poi a quella successiva che dovrà portare all’istituzione di una nuova autorità internazionale per l’alto mare e a una governance attribuita alla conferenza degli Stati parti e a un comitato tecnico-scientifico. E questa sarà la vera prova del trionfo del multilateralismo richiamato dal Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres.

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