Diffamazione: i giudici nazionali devono dimostrare la cattiva fede del giornalista.

Se i giudici nazionali, nel condannare un giornalista per diffamazione, non tengono conto della circostanza che il reporter ha agito in buona fede e nel rispetto delle regole deontologiche, è certo un contrasto con l’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che assicura il diritto alla libertà di espressione. Il principio è stato affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza depositata il 21 ottobre (Hlynsdottir contro Islanda (n. 2), ricorso n. 54125/10, ERLA HLYNSDOTTIR) che è costata una condanna all’Islanda. E’ stata una reporter islandese a rivolgersi ai giudici internazionali dopo essere stata condannata per diffamazione per aver scritto su un fatto di cronaca che aveva suscitato grande interesse. La giornalista aveva riportato i dubbi esistenti intorno alla figura del direttore di un centro di riabilitazione e di sua moglie accusati da alcuni pazienti di abusi sessuali. Sul giornale erano anche apparse le dichiarazioni di alcune pazienti che accusavano i due. A seguito dell’azione del direttore sanitario, che era stato indagato, e della donna, la giornalista era stata condannata dai giudici nazionali che – osserva la Corte europea – non hanno seguito i parametri di Strasburgo. Prima di tutto la questione riportata era di interesse pubblico ed era stata ampiamente seguita dai media. Non solo. Il giornalista aveva cercato di sentire le parti interessate e aveva riportato le dichiarazioni della presunta vittima. E’ evidente che la giornalista aveva agito in buona fede, rispettato le regole del buon giornalismo e cercato un giusto equilibrio che varia notevolmente a seconda del medium usato. Senza dimenticare che né i giudici nazionali né la Corte possono sostituirsi ai giornalisti nella costruzione di un articolo. I giudici nazionali, sui quali grava l’onere della prova, non hanno dimostrato la cattiva fede del giornalista e non hanno, quindi, effettuato un bilanciamento tra gli interessi in gioco così come non hanno dimostrato l’esistenza di un bisogno sociale imperativo nel limitare la libertà di stampa.Di qui, la condanna della Corte all’Islanda i cui giudici nazionali hanno dimenticato la Convenzione non considerando, per di più, il contesto e le modalità di preparazione dell’articolo. Straburgo, inoltre, ha considerato che il solo accertamento della violazione non costituisse una misura sufficiente e ha così condannato lo Stato a versare alla giornalista 2.500 euro per i danni patrimoniali e  5.500 per quelli morali, misura necessaria per indennizzare la reporter dello stress e della frustrazione subita.

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