La Corte europea prosegue nel rafforzamento della libertà di stampa e frena gli Stati che vannno nella direzione opposta

Il senso della libertà di stampa sembra tramontare in Europa, almeno a guardare le numerose sentenze di condanna inflitte dalla Corte di Strasburgo a vari Stati nei confronti dei quali è stata accertata la violazione dell’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che assicura il diritto alla libertà di espressione. Ultima in ordine di tempo, la sentenza depositata il 21 dicembre 2021 nel caso Banaszczyk contro Polonia (ricorso n. 66299/19, AFFAIRE BANASZCZYK c. POLOGNE) con la quale Strasburgo ha ritenuto che la condanna per diffamazione inflitta al direttore di un giornale locale fosse in contrasto con l’art. 10. L’uomo si era rivolto a Strasburgo perché, a seguito di alcuni articoli sulla gestione di un ospedale e sulla scarsa competenza di un medico, era stato condannato per diffamazione aggravata e costretto a versare, come sanzione penale, una multa.

In seguito, il medico al centro dell’articolo era stato ritenuto responsabile di avere messo a repentaglio la vita di un paziente e condannato al carcere, con pena sospesa. Il giornalista si è rivolto a Strasburgo che gli ha dato ragione. L’ingerenza nel diritto alla libertà di espressione – osservano i giudici internazionali – era prevista dalla legge e serviva a tutelare la reputazione del medico. Tuttavia, precisa la Corte, va sottolineato che è stato già affermato che per incorrere in una violazione del diritto al rispetto della vita privata, in cui è incluso il diritto alla reputazione, è necessario che sia raggiunto un certo livello di gravità, in grado di causare un pregiudizio nel godimento del diritto al rispetto della vita privata. Nel caso in esame, il giornalista aveva trattato temi di interesse per la collettività come la salute pubblica e il medico che si era ritenuto diffamato aveva anche delle funzioni ufficiali di direzione in un ospedale pubblico, con la conseguenza che i limiti alle critiche ammissibili sono più ampi rispetto ai singoli individui che non occupano posti pubblici. I giudici nazionali, inoltre, non hanno valutato complessivamente il contesto e non hanno considerato che il linguaggio utilizzato dal giornalista era sì incisivo, ma non volgare o ingiurioso, né il giornalista aveva effettuato un attacco gratuito al medico o all’ospedale perché le sue affermazioni avevano una base fattuale. Nel valutare poi l’operato dei giudici nazionali, la Corte tiene conto della sanzione che è stata di natura penale e, quindi, come tale essa ha già in sé un particolare elemento di gravità. Inoltre, il giornalista era stato tenuto a una donazione, a presentare delle scuse e a pagare le spese processuali. E’ vero – scrive la Corte – che la sanzione pecuniaria era stata ridotta in appello e che i giudici nazionali avevano considerato la situazione economica del ricorrente, ma l’applicazione cumulativa delle misure può avere un effetto deterrente sulla libertà di stampa, soprattutto con riguardo a questioni di interesse generale per la comunità locale. Di qui la violazione dell’articolo 10 della Convenzione da parte della Polonia tenuta a versare 280 per i danni materiali e 6.000 euro per i danni non patrimoniali subiti dal ricorrente.

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