La pubblicazione della fotografia di un accusato non è contraria alla CEDU – Publication of the accused’s photograph not in contrast to the right to privacy

Il giornalista può pubblicare la fotografia di una persona sospettata di un reato se nell’articolo precisa che l’arrestato è solo accusato, chiarendo così, i termini della vicenda giudiziaria. Per la Corte europea, la pubblicazione su un quotidiano di una fotografia di questo genere non è una violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che assicura il diritto al rispetto della vita privata e familiare. Con la sentenza Mityanin e Leonov contro Russia (ricorso n. 11436/06 e n. 22912/06, CASE OF MITYANIN AND LEONOV v. RUSSIA) depositata il 7 maggio, Strasburgo ha respinto il ricorso di due cittadini russi che, arrestati perché accusati di alcuni reati, sostenevano, oltre alla violazione di alcune regole inerenti all’equo processo, la lesione del diritto al rispetto della vita privata proprio per la pubblicazione della fotografia. I ricorsi interni erano stati tutti respinti.

Prima di tutto, la Corte ha chiarito che l’articolo 8 può essere invocato quando la lesione alla reputazione o all’onore ha un certo livello di gravità e la parte subisce un pregiudizio. Nessun dubbio che la pubblicazione di una fotografia, affiancata da un articolo sulle accuse rivolte al ricorrente e il suo possibile coinvolgimento in una banda accusata di aver commesso altri reati, raggiunge un livello di gravità rilevante. Tuttavia, se c’è un interesse pubblico alla diffusione della notizia che contribuisce a un dibattito su una questione di interesse generale, il diritto alla libertà di stampa non può essere compresso. La collettività – scrive la Corte – ha un interesse ad essere informata sui procedimenti giudiziari, anche se vanno evitati i “trial by media” e garantita la presunzione d’innocenza. E’ vero che il ricorrente non era un personaggio pubblico, ma questo è solo uno degli elementi da prendere in considerazione per verificare l’interesse della collettività alla notizia. Tra l’altro, i giornalisti avevano riportato un’informazione fornita dall’autorità pubblica, il linguaggio non era stato offensivo e il cronista aveva basato il proprio articolo su fonti ufficiali, sottolineando che la persona al centro dell’articolo era solo accusata di un reato. L’accostamento alla banda criminale che aveva commesso altri reati, quindi, non portava i lettori a concludere che il ricorrente fosse coinvolto in quegli stessi reati dei quali era accusata la gang. Così, nel respingere l’azione del ricorrente che aveva citato in giudizio il giornalista per diffamazione, i tribunali nazionali non hanno violato l’articolo 8 della Convenzione che assicura il diritto al rispetto della vita privata.

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