L’Italia condannata per i maltrattamenti commessi da agenti della polizia municipale

 Maltrattamenti commessi da agenti della polizia municipale. Assenza di indagini adeguate da parte delle autorità nazionali. Di qui la condanna all’Italia decisa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con sentenza depositata il 12 ottobre (ricorso n. 21759/15 CASE OF TIZIANA PENNINO v. ITALY) con la quale Strasburgo ha accertato una nuova violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea che vieta i trattamenti inumani e degradanti. A rivolgersi ai giudici internazionali, una donna fermata da agenti della polizia municipale perché sospettata di guida in stato di ebrezza. Condotta nella stazione della polizia municipale, secondo la sua ricostruzione, aveva subito maltrattamenti che le avevano procurato una frattura al pollice e altre contusioni. Era scattata la denuncia, ma il giudice per le indagini preliminari aveva accolto la richiesta del procuratore e deciso di chiudere il procedimento con non luogo a procedere. Così, la decisione di rivolgersi alla Corte europea che ha dato ragione alla ricorrente, condannando l’Italia a versare alla vittima 12mila euro per i danni non patrimoniali e 8mila per le spese sostenute.

Diverse le violazioni commesse dall’Italia: le autorità nazionali – ha osservato la Corte – hanno l’obbligo di proteggere le persone che subiscono limitazioni della libertà personale e, nei casi in cui vi siano denunce per maltrattamenti, di assicurare lo svolgimento di indagini adeguate e accurate per verificare i fatti. Così non era stato nel caso in esame. Non solo. Nei casi in cui viene contestata la violazione dell’articolo 3 e la vittima si trova sotto il controllo di autorità di polizia, spetta allo Stato in causa “fornire una spiegazione soddisfacente e convincente circa le circostanze nelle quali si sono verificate le lesioni” e dimostrare che l’uso della forza è stato limitato a quanto strettamente necessario rispetto alla condotta delle vittime. E questo tenendo conto che le persone che sono in custodia della polizia o che sono semplicemente condotte in una stazione di polizia per un controllo sono in una situazione di particolare vulnerabilità. Se ciò non si verifica, lo Stato viene meno agli obblighi positivi imposti dall’articolo 3 che, per di più, richiedono che gli Stati garantiscano che il proprio personale agisca in modo professionale. Nel caso in esame, secondo Strasburgo, il Governo non ha dimostrato la necessità dell’uso della forza, trincerandosi unicamente dietro lo stato di agitazione della donna. Sono poi mancate indagini complete, richieste in tutti i casi in cui è in gioco una violazione dell’articolo 3 e, d’altra parte, lo stesso Governo in causa, per i fatti avvenuti all’interno della stazione di polizia, ha solo mostrato un rapporto degli stessi agenti della polizia municipale.

Un ulteriore tassello, poi, che getta ombre sulla completezza delle indagini è la circostanza – sottolineata dalla Corte – che la richiesta di archiviazione del procuratore aveva una motivazione molto succinta e scritta in modo standardizzato. Stesse critiche per la decisione del giudice che non ha motivato il no alla richiesta della vittima circa lo svolgimento di indagini supplementari. Di qui la conclusione che l’Italia ha violato l’articolo 3 sia per gli aspetti sostanziali sia per quelli procedurali.

Nessun commento

Aggiungi un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *