Missioni militari all’estero: la Grande Camera “assolve” la Germania

 Le indagini condotte dalle autorità tedesche per l’uccisione di due bambini in Afghanistan, a seguito di un attacco aereo di militari tedeschi nei pressi di Kunduz. sono state condotte in modo conforme alla Convenzione europea e, quindi, per Strasburgo non è stato violato, sotto il profilo procedurale, il diritto alla vita. E’ quanto ha stabilito la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza del 16 febbraio nel caso Hanan contro Germania (ricorso n. 4871/16 (CASE OF HANAN v. GERMANY). A rivolgersi a Strasburgo è stato un cittadino afghano, padre di due figli uccisi nel periodo successivo all’intervento statunitense in Afghanistan, nell’operazione Enduring Freedom. Il Parlamento tedesco aveva autorizzato l’invio di militari per assicurare il mantenimento della pace nel Paese. Nel 2009, tuttavia, la situazione era peggiorata. A Kunduz, a seguito dell’azione di alcuni insorti che si erano impadroniti di un camion cisterna che trasportava carburante, costringendo alcuni civili a intervenire per aiutarli a liberare il camion, bloccato nella sabbia, un colonnello del contingente tedesco della Forza internazionale di assistenza per la sicurezza della Nato (ISAF) aveva ordinato alle sue truppe di bombardare il camion, causando, tra l’altro, la morte dei due figli del ricorrente, di dodici e otto anni. Era stata avviata un’inchiesta sull’eventuale commissione di crimini di guerra. Il Procuratore generale presso la Corte federale tedesca di Dresda aveva chiuso il procedimento anche perché aveva definito la guerra in Afghanistan come conflitto interno e deciso che il codice sui crimini di guerra non era applicabile poiché non si trattava di un conflitto internazionale. Né, a suo avviso, il colonnello poteva essere perseguito per altri reati perché non aveva avuto l’intenzione di procurare la morte di civili e aveva agito per ragioni di sicurezza, senza sapere che erano presenti dei civili. Il padre delle due vittime aveva cercato di fare riaprire l’inchiesta, ma tutti i suoi tentativi e le sue istanze erano state respinte. Anche una commissione parlamentare d’inchiesta aveva accertato che il comportamento del militare era stato conforme alle regole. L’uomo allora aveva avviato un’azione civile contro la Germania per ottenere un indennizzo per la morte dei figli, ma anche questo ricorso era stato respinto. Di qui il ricorso alla Corte europea, nel quale il ricorrente ha contestato la violazione dell’articolo 2 (diritto alla vita) sotto il profilo procedurale. La Grande Camera, prima di tutto, ha stabilito che, nel caso in esame, non si può ritenere che la Germania avesse una giurisdizione effettiva sul territorio afghano, ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione, tale da giustificare l’apertura di un’indagine sulla violazione del diritto alla vita ai sensi della Convenzione proprio perché mancava un legame giurisdizionale sufficiente. La sola circostanza che, in base all’accordo con la forza multinazionale, ogni Stato mantenesse la giurisdizione esclusiva sui propri militari non è sufficiente a costituire un link giurisdizionale ai sensi dell’articolo 1. In aggiunta, le forze tedesche non avevano la possibilità di esercitare poteri giurisdizionali in Afghanistan. Tuttavia, la Germania era tenuta, in forza del diritto internazionale umanitario consuetudinario, ad indagare sull’attacco aereo al camion in ragione della possibile responsabilità penale individuale per crimini di guerra di un componente delle forte armate tedesche. Inoltre, le autorità afghane non avrebbero potuto aprire un’inchiesta penale in virtù dell’accordo della forza multinazionale International Security Assistance Force (ISAF) in base al quale ogni Stato, che aveva fornito forze militari per l’operazione, manteneva la competenza esclusiva  sui propri membri del contingente. Pertanto, osserva la Corte, la Germania aveva un obbligo di verificare se fosse stato violato il diritto alla vita, sotto il profilo procedurale dell’articolo 2 della Convenzione. Tenendo conto delle indagini svolte, del materiale raccolto dal Procuratore generale tedesco, la Corte condivide l’operato delle autorità nazionali e anche la decisione di non sentire testimoni, perché dai diversi documenti esaminati era evidente che il colonnello non aveva motivo di sospettare la presenza di civili sul luogo dell’attacco. Inoltre, l’inchiesta parlamentare aveva permesso anche alla collettività di conoscere la vicenda. Così, la Corte ha respinto il ricorso e accertato che la Germania non ha violato l’articolo 2, sotto il profilo procedurale.

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