Sottrazione internazionale e “repudiatory retention”: si pronuncia la Corte suprema inglese

La Corte suprema inglese, con la sentenza depositata il 14 febbraio [2018] UKSC 8 (C(Children) ha chiarito i criteri per stabilire il momento in cui scatta la sottrazione internazionale nei casi in cui la madre sia rientrata nel suo Paese con i figli minorenni con il consenso del marito e decida di rimanere nel Paese, senza tornare dal coniuge. A rivolgersi alla Suprema Corte una donna, con doppia cittadinanza inglese e australiana, che risiedeva con il marito in Australia. D’intesa con il partner era rientrata per un breve periodo in Inghilterra ma, una volta lì, senza informare il padre, aveva iscritto i figli nella scuola materna e aveva chiesto la cittadinanza per i propri figli comunicando alle autorità che non intendeva rientrare in Australia per timore di subire abusi da parte del marito. I giudici inglesi ai quali si era rivolto il padre australiano sostenevano che la Convenzione del 1980 sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori non era applicabile perché la sottrazione internazionale era tale solo dal momento in cui era decorso il periodo per il quale era stato espletato il consenso dal padre. Di conseguenza, nel momento in cui i figli avevano acquisito la residenza abituale, la Convenzione non era applicabile. Tuttavia, la Corte di appello riteneva di dover considerare il momento in cui la madre aveva manifestato l’intenzione di non tornare in Australia. Così la donna aveva fatto ricorso alla Corte suprema che lo ha accolto, respingendo le tesi del marito. Nodo centrale è il rapporto tra applicazione della Convenzione dell’Aja e residenza abituale. La Corte Suprema, anche alla luce delle pronunce della Corte di giustizia dell’Unione europea, ha ritenuto che la Convenzione non possa essere invocata se, nel momento in cui è stata commessa l’illecita sottrazione, il minore era abitualmente residente nello Stato nel quale era stata presentata la domanda di ritorno del minore. Per quanto riguarda la cosiddetta “repudiatory retention”, la Corte Suprema riconosce che essa è prevista in taluni ordinamenti – seppure non accettata in via generale sul piano internazionale-, ma ha ritenuto che gli argomenti in suo favore sono in linea con la Convenzione dell’Aja, richiedendo, tuttavia, per la sua applicazione “an objectively identificabile act of repudiation”, senza una necessità di una comunicazione formale al coniuge.

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