Sulla natura della riparazione per ingiusta detenzione intervengono le Sezioni Unite

Con sentenza n. 51779/13 depositata il 24 dicembre, la Corte di cassazione, sezioni unite penali, ha chiarito il carattere della riparazione per ingiusta detenzione effettuando, tra l’altro, anche un confronto con gli atti internazionali che la prevedono (ingiusta detenzione). La richiesta di riparazione era stata presentata da un individuo assolto dall’accusa di spaccio di stupefacenti. La sua richiesta era stata respinta dalla Corte di appello di Catania in ragione del comportamento del richiedente che aveva agito con colpa grave non contribuendo così all’accertamento immediato della verità. La vicenda era poi approdata in Cassazione che aveva annullato la pronuncia e rimesso gli atti alla Corte territoriale affinché procedesse a un’adeguata motivazione con riferimento alla colpa grave del richiedente. La Corte di appello confermava la propria conclusione con conseguente ricorso in cassazione. La terza sezione penale ha rimesso il ricorso alle Sezioni unite ritenendo che potessero determinarsi interpretazioni contrastanti anche perché, nelle more, era stata resa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, una sentenza, il 10 aprile 2012 (Lorenzetti contro Italia), con la quale Strasburgo aveva ravvisato, in un diverso procedimento per la riparazione per ingiusta detenzione, una violazione dell’articolo 6 nella parte in cui il sistema italiano non garantisce la pubblicità del rito utilizzato per trattare la domanda di riparazione. Di qui la scelta delle Sezioni Unite di sollevare una questione di legittimità costituzionale di alcune norme del codice di procedura penale rispetto agli articoli 117 e 111 della Costituzione. La Consulta, con pronuncia n. 214 del 2013, ha dichiarato la questione inammissibile. La vicenda è così tornata alle Sezioni Unite che hanno respinto il ricorso sottolineando altresì il carattere riparatorio e non risarcitorio dell’indennizzo previsto per l’ingiusta detenzione con ciò evidenziando il differente carattere rispetto all’articolo 9 del Patto sui diritti e civili del 1966 e dell’articolo 5, par. 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, proprio perché nella normativa interna si prescinde dall’arbitrarietà della condotta. Stando così le cose – per la Suprema Corte – la Corte di appello ha agito correttamente anche colmando le lacune motivazionali presenti nella prima pronuncia.

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