La CEDU condanna l’Italia per il divieto di attribuzione del cognome materno ai figli

La preclusione nell’assegnazione al figlio del solo cognome materno è una discriminazione sulla base del sesso e costituisce una violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Un verdetto che non lascia dubbi quello emesso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza depositata oggi (ricorso n. 77/07, Cusan e Fazzo contro Italia, AFFAIRE CUSAN ET FAZZO c. ITALIE), con la quale i giudici internazionali hanno “condannato” l’Italia per violazione dell’articolo 14 (che sancisce il divieto di ogni forma di discriminazione) e dell’articolo 8 che assicura il diritto al rispetto della vita privata e familiare. E’ la prima pronuncia in materia di attribuzione del cognome resa dalla Corte di Strasburgo nei confronti dell’Italia. L’importanza della sentenza è non solo nella constatazione dell’esistenza di una discriminazione, cosa di cui tutti, salvo il legislatore italiano, si erano resi conto, ma anche nell’individuazione, da parte di Strasburgo, dell’obbligo per lo Stato in causa di adottare misure generali e, quindi, procedere a un’immediata modifica legislativa al fine di rispettare la Convenzione. Alla Corte europea si era rivolta una coppia che, nel 1999, al momento della nascita della figlia, aveva chiesto di trascrivere il solo cognome materno. Il no era arrivato prima dagli uffici di stato civile e poi dai giudici interni ai quali la coppia si era rivolta. La Corte costituzionale, con sentenza n. 6 del 16 febbraio 2006, aveva dichiarato la questione di costituzionalità irricevibile, invocando, però, un intervento del legislatore nazionale per rimuovere una concezione patriarcale di famiglia non più corrispondente alla realtà sociale.

Ai coniugi non era rimasto altro – di fronte all’inerzia legislativa – che rivolgersi a Strasburgo, che ha dato ragione ai ricorrenti. Prima di tutto, la Corte europea ha respinto le eccezioni del Governo italiano secondo il quale il ricorso doveva essere dichiarato irricevibile in base all’articolo 35, par. 3, lett. b), mancando un pregiudizio importante. La Corte europea ha invece ritenuto che la qualificazione dell’importanza del pregiudizio non può essere condotta solo sulla base di un eventuale pregiudizio economico, ma deve essere considerata caso per caso alla luce delle questioni in gioco. L’importanza del caso e, quindi, la presenza di un pregiudizio importante risulta evidente anche tenendo conto del fatto che la sentenza può fornire una guida per le giurisdizioni nazionali, trattandosi, per di più, del primo caso italiano. Respinte le eccezioni di irricevibilità, la Corte ha accertato una violazione dell’articolo 8 che, pur non contenendo disposizioni esplicite sul diritto al cognome, riguardando il diritto al rispetto della vita privata e familiare, include tutto ciò che attiene ad elementi di identificazione personale. Ora, è evidente che consentire unicamente la trasmissione del cognome paterno, addirittura nei casi in cui la coppia sia favorevole a indicare solo quello materno,  determina un effetto discriminatorio su persone che si trovano nella stessa situazione svolgendo entrambi il ruolo di genitori. Discriminazione che, precisa la Corte, non è sanata neanche con la limitata concessione di aggiungere a quello paterno il cognome materno (tra l’altro dopo un ricorso al prefetto). Evidente, quindi, la violazione del principio d’uguaglianza tra uomo e donna che impone l’eliminazione di ogni forma di discriminazione anche nella scelta del cognome. Di conseguenza, la Corte, accertata la violazione, ha chiesto allo Stato, in base all’articolo 46, l’adozione di misure di carattere generale costituite dall’approvazione di una normativa conforme al quadro convenzionale. C’è da sperare che invece di intraprendere automatici e pretestuosi ricorsi alla Grande Camera, le autorità italiane si concentrino su un’immediata riforma legislativa.

Si veda il post http://www.marinacastellaneta.it/blog/sullattribuzione-del-cognome-interviene-la-corte-europea.html

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