La Corte di Cassazione, prima sezione penale, con la sentenza n. 28915 depositata il 17 luglio, ha chiarito la corretta interpretazione dell’articolo 12 del Testo unico in materia di immigrazione (decreto legislativo n. 286/1998) precisando che la norma che punisce il reato di favorire l’ingresso o la permanenza illegale di uno straniero nello Stato non riguarda unicamente lo Stato italiano, ma anche i casi in cui detto ingresso avvenga in uno Stato diverso dall’Italia (28915). La vicenda riguardava un cittadino pachistano condannato dalla Corte di appello di Milano a quattro anni e quattro mesi di reclusione, oltre a una multa con sanzioni accessorie e alla misura di sicurezza dell’espulsione dallo Stato. L’uomo riteneva che fosse stato violato l’articolo 12 con riguardo all’applicazione dell’aggravante applicabile, a suo dire, solo nel caso in cui sia favorito l’ingresso o la permanenza illegale di uno straniero in Italia e non in altri Stati. Una tesi respinta dalla Suprema Corte secondo la quale l’articolo 12, comma 3 del Testo unico è funzionale a vietare l’ingresso illegale di stranieri anche in uno Stato diverso dall’Italia come risulta dal dato letterale della norma (3. “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, in violazione delle disposizioni del presente testo unico, promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato, ovvero di altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente, è punito con la reclusione (da sei a sedici anni) e con la multa di 15.000 euro per ogni persona nel caso in cui: a) il fatto riguarda l’ingresso o la permanenza illegale nel territorio dello Stato di cinque o più persone…”). Inoltre, la Corte, prendendo atto degli accertamenti risultanti dalla sentenza della Corte di appello di Milano, sottolinea che il trasporto degli stranieri era avvenuto con un furgone destinato al trasporto di merci, senza che vi fossero aperture per la luce e per il ricambio dell’aria, d’estate, con temperature inevitabilmente elevate. Il furgone era partito da Milano e aveva come destinazione la Francia ed è stata corretta la qualificazione compiuta dal giudice di primo grado e confermata in appello secondo i quali le condizioni integravano “in modo evidente un trattamento inumano e degradante, perché consistenti nel degradare la persona ad una merce e nel trattenerla per alcune ore in un ambiente del tutto privo di luce e di aria, in un periodo caratterizzato da temperature elevate”. Gli stranieri erano stati trasportati “con modalità non dignitose per un essere umano” e con una totale assenza di umanità. È irrilevante – precisa la Cassazione – che non si verifichino danni fisici o psichici. Riguardo alla presunta diversità rispetto alla nozione di trattamento inumano o degradante prospettata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, la Suprema Corte evidenzia che la giurisprudenza di Strasburgo è stata richiamata in modo erroneo in quanto non riguardante la commissione di reati da parte di soggetti privati, ma atti di privazione commessi dallo Stato. Respinto, così, il ricorso del condannato.
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