Se gli Stati non intervengono con misure effettive e immediate a tutela delle donne vittime di violenza domestica è certa la violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Con la sentenza del 2 marzo 2017 (ricorso n. 41237/14, AFFAIRE TALPIS c. ITALIE), la Corte europea dei diritti dell’uomo ha inflitto una dura condanna all’Italia, accertando una violazione dell’articolo 2 che tutela il diritto alla vita, dell’articolo 3, che vieta i trattamenti disumani e degradanti e dell’articolo 14 che vieta ogni forma di discriminazione. A rivolgersi a Strasburgo, una donna che nel corso degli anni era stata vittima della violenza del marito. A settembre 2012 la donna aveva presentato una denuncia per violenza e chiesto un intervento delle autorità ma, successivamente, aveva attenuato le accuse. L’anno dopo, nuova denuncia, con una lite tra la donna e l’uomo culminata con l’uccisione del figlio, che aveva cercato di difendere la madre, da parte del marito. Quest’ultimo era stato condannato all’ergastolo, in un procedimento con rito abbreviato, dal giudice dell’udienza preliminare di Udine, condanna confermata in appello. Per la Corte europea, che ha per la prima volta condannato l’Italia per un caso di violenza domestica, dopo “l’assoluzione” nel caso Rumor (sentenza del 27 maggio 2014), le autorità nazionali non hanno fornito un adeguato supporto alla vittima di violenza domestica, costringendo la ricorrente a vivere in una situazione di grande insicurezza e vulnerabilità fisica e psichica. Non solo. L’inerzia delle autorità nazionali ha determinato una situazione di impunità che ha lasciato spazio alla violenza del marito. Evidente così il mancato rispetto dell’articolo 2 che impone agli Stati obblighi positivi e, quindi, l’adozione di misure necessarie alla protezione degli individui sottoposti alla propria giurisdizione e che, invece, nel caso di specie, non erano state adottate. La Corte, inoltre, accertata la violazione dell’articolo 3 che vieta i trattamenti disumani e degradanti e dell’articolo 14 sul divieto di ogni forma discriminazione, ricorda la gravità della piaga della violenza contro le donne in Italia. Basti pensare – osserva Strasburgo – al rapporto del Comitato Onu per l’eliminazione delle discriminazioni verso le donne, istituito con il Protocollo del 1979 alla Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne del 18 dicembre 1979 (ratificata con legge 14 marzo 1985 n. 132), con il quale è stato chiesto al Governo di “attuare misure complete per affrontare la violenza contro le donne” e un’adeguata protezione a coloro che subiscono violenza, oltre a garantire l’accesso al gratuito patrocinio e a forme di riparazione per le vittime. La Corte, analizzando diversi atti di organismi internazionali, ha posto l’accento sulla gravità e sull’ampiezza del fenomeno drammatico della violenza domestica nei confronti delle donne, aggravata “da un’attitudine socioculturale di tolleranza” che continua a persistere. Accertate le gravi violazioni della Convenzione da parte dell’Italia, i giudici hanno concesso alla donna 30mila euro per i danni morali subiti e 10mila per le spese sostenute.
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giuseppe alfano
marzo 11, 2017VIolenza domestica consumatasi a Remanzacco qualche anno fa, che ha generato la prima condanna dell’Italia in materia di stalking da parte della Corte dei diritti umani di Strasburgo.
Non sono d’accordo quando si dice che non si fece nulla per prevenire il reato, o meglio i reati, e che le leggi ci sono e vanno applicate con fermezza.
Le leggi sono carenti e incoerenti.
Non è possibile che il femminicidio con una legge in corso di approvazione in Parlamento verrà sanzionato più pesantemente e cioè con la pena dell’ergastolo, come nella uccisione di genitori e figli, e poi, incoerentemente, si disciplinano i fatti/reato prodromici in maniera disomogenea : la Politica si è accorta di questa incoerenza di sistema?
I fatti prodromici del femminicidio, a seconda del concreto dispiegarsi di essi, in relazione alle specifiche condotte materiali degli autori, possono qualificarsi come maltrattamenti in famiglia, violenza privata, lesione personale con prognosi superiore a 20 giorni, minaccia grave, violenza sessuale, lesione personale inferiore a 20 giorni, percosse, minacce non gravi, molestia o stalkig, di cui i primi quattro sono perseguibili di ufficio con semplice denuncia contenente la notizia di reato, mentre i restanti sei fatti sono perseguibili solo a querela di parte ( cosa diversa dalla denuncia) in mancanza della quale il sistema repressivo si blocca.
Di fronte a questo quadro normativo è naturale che succedano fatti come quello di Remanzacco e di tante altre località d’Italia.
Allora, innanzitutto bisogna uniformare queste diverse discipline in un disegno unitario di lotta alla violenza sulle donne, e poi bisogna creare una legislazione efficace di prevenzione affidata ai centri antiviolenza, che vanno riqualificati e dotati di risorse finanziarie.
Questo lo dico a tutela anche delle nostre autorità amministrative e delle nostre forze dell’ordine che, nelle circostanze date, non credo proprio meritino un disappunto o una qualche forma di ostracismo.
Quanto poi alla sentenza di Strasburgo devo dire, prima ancora di leggere le motivazioni, che qui bisogna andare con i piedi di piombo : le regole del diritto CEDU e del diritto UE vanno rispettate nei limiti in cui non interferiscono con il nostro ordine costituzionale, per cui se per ipotesi le condizioni di procedibilità a querela di parte per i sei reati sopra indicati dovessero rispondere a un qualche principio costituzionale italiano, i giudici di Strasburgo e di Lussemburgo dovrebbero fare un passo indietro (cfr. Corte cost. sentenza 24/2017).
In definitiva il danno erariale collegato al caso di Remanzacco non è imputabile alle forze dell’ordine o al Sindaco di Remanzacco ma allo Stato centrale!