Il personale di un’ambasciata che agisce al di fuori delle proprie funzioni non può invocare l’immunità, una volta rientrato in patria, per le attività estranee ai propri compiti. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, sezione quinta civile, con la sentenza n. 39788/14 depositata il 25 settembre 2014 (39788_14), con una sentenza che consente, seppure in parte, di punire sul piano formale alcuni degli autori del sequestro di Abu Omar. Alla Cassazione si erano rivolti tre dipendenti dell’ambasciata americana a Roma (una segretaria e due consiglieri) che erano anche agenti della Cia. A diverso titolo avevano partecipato al sequestro e alla successiva extraordinary rendition di Abu Omar. Il Tribunale d Milano aveva affermato l’immunità diplomatica e dichiarato il non luogo a procedere. Di diverso avviso la Corte di appello di Milano che, con la pronuncia del 1° aprile 2014, aveva accertato la colpevolezza dei 3 ricorrenti, condannati a pene comprese tra i 6 e i 7 anni, nonché al risarcimento dei danni nei confronti di Abu Omar e della moglie che si erano costituiti parti civili. Di qui il ricorso in Cassazione. Tra i diversi motivi, i ricorrenti sostenevano l’immunità dalla giurisdizione. Chiarito che nel caso in esame doveva trovare applicazione la Convenzione del 14 aprile 1961 sulle relazioni diplomatiche (CONV_VIENNA1961), ratificata dall’Italia con legge 9 agosto 1963 n. 806 e non quella del 24 aprile 1963 sugli agenti consolari, la Cassazione ha negato l’immunità. E’ vero – osserva la Suprema Corte – che all’agente diplomatico spetta l’immunità dalla giurisdizione penale dello Stato nel quale è accreditato, ma i privilegi e le immunità decadono quando l’agente lascia il Paese e finisce la sua funzione. In questi casi, infatti, l’immunità permane unicamente per gli atti compiuti nell’esercizio della propria funzione come membro della missione diplomatica. E’ evidente che i 3 ricorrenti, come provato dai giudici di merito, agirono non in quanto membri dell’ambasciata ma come personale della Cia. Di qui il diniego alla concessione dell’immunità, una circostanza che conduce la Suprema Corte a non affrontare la questione del rapporto tra immunità degli agenti diplomatici e tutela dei diritti umani. La Cassazione, che ha respinto anche gli altri motivi di ricorso, confermando così la condanna dei tre ricorrenti, ha escluso che il provvedimento di clemenza concesso dal Presidente della Repubblica a Joseph Romano potesse essere invocato per impedire l’accertamento della responsabilità penale. Anzi, osserva la Corte, l’indicato provvedimento “non contraddice la responsabilità penale del graziato, ma semmai la conferma”.
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