L’obbligo di versare contributi sproporzionati per ottenere il permesso di soggiorno è contrario al diritto Ue

La Corte di giustizia dell’Unione Ue, con la sentenza depositata ieri (C-309/14, C-309:14), boccia i contributi troppo onerosi imposti ai cittadini di Paesi terzi per i permessi di soggiorno. E’ stato il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio a sollevare la questione pregiudiziale prima di decidere su un ricorso presentato dalla Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL) e dall’Istituto nazionale confederale di assistenza (INCA). I due sindacati avevano chiesto l’annullamento del decreto del 2011 adottato in base al Dlgs n. 286/1998 (testo unico sull’immigrazione) che prevede il pagamento di un contributo per il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno compreso tra 80 e 200 euro. In pratica, un importo pari a 8 volte il costo del rilascio della carta d’identità (10 euro).

Per la Corte Ue, la direttiva 2003/109 sullo status dei cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo, modificata dalla 2011/51, non consente a uno Stato membro di imporre un versamento sproporzionato rispetto alla finalità perseguita tanto più che la previsione italiana crea un ostacolo all’esercizio dei diritti stabiliti nell’atto Ue. E’ vero che gli Stati godono di un potere discrezionale, ma tale potere non è illimitato e non può certo spingersi sino ad arrivare a compromettere gli obiettivi fissati dalla direttiva 2003/109. E’ poi evidente che non è stato rispettato il principio di proporzionalità perché l’incidenza economica del contributo su cittadini di Paesi terzi, che hanno diritto a rimanere sul territorio di uno Stato membro in base alla direttiva, potrebbe essere di tale portata da ostacolare o impedire l’esercizio dei diritti fissati nella direttiva. Ed invero, scrive la Corte, i cittadini di Paesi terzi “sono costretti a richiedere il rinnovo dei loro titoli assai di frequente e all’importo di detto contributo può aggiungersi quello di altri tributi previsti dalla preesistente normativa nazionale”. Di qui l’evidente sproporzionalità. I giudici Ue, inoltre, non hanno accolto la tesi del Governo italiano secondo il quale il contributo servirebbe allo svolgimento dell’attività istruttoria per il permesso di soggiorno. D’altra parte, nell’ordinanza di rinvio è stato chiarito che la metà del gettito proveniente dalla riscossione del contributo serve a finanziare le spese per il rimpatrio verso i Paesi di origine di cittadini extra Ue che si trovano in una posizione di irregolarità. Una circostanza che mostra l’assenza di collegamento tra l’importo versato e l’obiettivo perseguito ossia lo svolgimento della pratica amministrativa.

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