I documenti bancari di un cliente sono dati personali e quindi godono della protezione offerta dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che assicura il diritto alla vita privata al pari del diritto alla corrispondenza. Di conseguenza, la confisca di tali atti incluso il sequestro di lettere e e-mail deve avvenire nel rispetto di adeguate garanzie procedurali a tutela della persona che subisce il sequestro, che deve avere la possibilità di contestare i provvedimenti in sede giudiziaria. In caso contrario è certa la violazione della Convenzione europea. E’ quanto ha stabilito la Corte dei diritti dell’uomo nella sentenza depositata il 7 luglio che ha condotto a una condanna di San Marino (M.N. AND OTHERS). A rivolgersi a Strasburgo quattro cittadini italiani che, nel corso di un procedimento penale che non li riguardava, si erano visti sequestrare documenti e corrispondenza. Su richiesta degli inquirenti italiani, il Tribunale di San Marino aveva emesso un provvedimento di sequestro di alcuni documenti bancari. Tali misure erano state notificate ai ricorrenti dopo un anno. Di qui la decisione di presentare un ricorso alla Corte di appello impugnando il provvedimento che aveva disposto il sequestro. L’istanza era stata respinta sulla base della circostanza che i ricorrenti non erano parti interessate al procedimento penale. Inoltre eventuali violazioni frutto dell’esecuzione della richiesta italiana avrebbero dovuto essere sollevate dinanzi ai tribunali italiani. Dichiarato inammissibile il ricorso di due ricorrenti che non avevano rispettato il previo esaurimento dei ricorsi interni, la Corte ha, prima di tutto rigettato la posizione secondo la quale l’articolo 8, che assicura il diritto al rispetto della vita privata, non poteva trovare applicazione nel caso di documenti bancari. Una tesi del tutto respinta da Strasburgo. I documenti bancari – osservano i giudici internazionali – contengono dati personali che riguardano l’individuo, senza che abbia rilievo la circostanza che essi contengano informazioni sensibili. Così, non ha alcuna importanza il fatto che le informazioni ineriscano all’attività professionale. Non c’è alcuna ragione – scrive la Corte – per escludere le attività di un professionista o di natura commerciale dalla nozione di “vita privata”. Emerge poi un ulteriore profilo di contrarietà alla Convenzione nella parte in cui ai destinatari di un provvedimento di documenti non sono state offerte adeguate misure di salvaguardia. In pratica, i ricorrenti si sono trovati in una situazione più negativa rispetto agli indagati perché in base all’ordinamento di San Marino non hanno potuto in alcun modo contestare il provvedimento dinanzi ai giudici di quel Paese. Di qui la condanna allo Stato tenuto a corrispondere 3mila euro per i danni non patrimoniali e 15mila euro per i costi e le spese.
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