La Corte europea dei diritti dell’uomo torna sulla sorveglianza nei luoghi di lavoro. E lo fa con la decisione relativa al caso Garamukanwa contro Regno Unito (ricorso n. 70573/17, GARAMUKANWA v. THE UNITED KINGDOM) depositata il 14 maggio e resa pubblica il 6 giugno. Questa volta al centro del ricorso un cittadino britannico che, accusato di stalking e molestie, sosteneva che era stata violata la tutela della vita privata per i controlli effettuati, durante il procedimento disciplinare interno, sulle fotografie custodite nel suo cellulare, nonché sui messaggi WhatsApp. Ad avviso di Strasburgo, l’uomo non poteva ragionevolmente attendersi che le sue comunicazioni rimanessero riservate tanto più che ben un anno prima il datore di lavoro gli aveva comunicato l’esistenza di un accertamento sulla sua condotta. Questi i fatti. Il ricorrente, manager in una società sanitaria, era stato al centro di accuse da parte di una dipendente che aveva avuto una relazione con l’uomo ma che, alla cessazione del rapporto, non solo era stata destinataria di continui messaggi da parte dell’uomo, ma era stata vittima di pettegolezzi per l’invio di email sulla sua vita personale agli altri colleghi. La polizia aveva avvertito il datore di lavoro dell’apertura di un’inchiesta, situazione che aveva determinato la sospensione dal servizio del ricorrente. Al termine del procedimento disciplinare interno, l’uomo era stato licenziato anche sulla base di documentazione reperita nel cellulare, trasmessa dalla polizia al datore di lavoro. Di qui, dopo che tutti i ricorsi interni erano stati respinti, il ricorso alla Corte europea. Strasburgo parte dalla constatazione che anche le comunicazioni sul posto di lavoro possono rientrare nella nozione di vita privata ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione. Nel caso di specie, le fotografie contenute nell’iPhone rientrano nell’ambito della vita privata e le email e i messaggi di Whatapp nella nozione di corrispondenza. Alcune email erano state spedite da un indirizzo di posta elettronica dell’azienda, ma per la Corte questo non è determinante per escludere una comunicazione dalla nozione di vita privata. Quello che è centrale nel ragionamento della Corte è l’aspettativa di tutela della vita privata del ricorrente. In questo caso, l’uomo, sapendo che c’era un’inchiesta nei suoi confronti e che la dipendente si era lamentata dei continui messaggi ricevuti, non poteva avere un’aspettativa di tutela della privacy. Inoltre, il ricorrente non aveva contestato, durante la fase del procedimento disciplinare, l’utilizzo del materiale contenuto nell’iPhone e, anzi, volontariamente aveva fornito i messaggi di Whatapp. I tribunali interni, sottolinea Strasburgo, avevano considerato un eventuale contrasto con l’articolo 8 della Convenzione e non avevano individuato alcuna violazione. La Corte europea, così, proprio alla luce dell’assenza di una ragionevole aspettativa relativa alla tutela della privacy, ha dichiarato inammissibile il ricorso.
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