Se una persona cerca attivamente le luci della ribalta sulla propria vita privata non può poi accusare la stampa di aver pubblicato notizie che la riguardano e che non hanno interesse generale. E’ la Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza depositata il 23 gennaio 2018, Faludt-Kovács contro Ungheria (ricorso n. 20487/13, FALUDY-KOV?CS v. HUNGARY), a intervenire sulla libertà di stampa (articolo 10 della Convenzione) facendo pendere l’ago della bilancia a favore di quest’ultima rispetto al diritto alla reputazione, che rientra in quello al rispetto della vita privata (articolo 8). E’ stata la vedova di un famoso poeta ungherese a rivolgersi a Strasburgo. Il matrimonio della coppia, anche per la grande differenza di età, era stato oggetto di un’ampia copertura mediatica. Dopo la morte del marito, la donna aveva concesso un’intervista in cui aveva dichiarato di volere un figlio con le capacità intellettuali del marito e aveva spiegato che aveva chiesto alla sorella e a un nipote del marito di aiutarla in questo progetto. L’articolo era stato ripreso da un noto settimanale ungherese con un titolo che sottolineava il comportamento della vedova che, alla ricerca di notorietà, aveva calpestato la memoria del poeta. La donna, considerato che i tribunali interni avevano respinto la sua istanza, si è rivolta alla Corte europea sostenendo che era stato leso il suo diritto alla reputazione, non salvaguardato, a suo dire, dai giudici interni. Di diverso avviso Strasburgo. E’ vero – scrive la Corte – che l’articolo 8 della Convenzione garantisce il diritto alla reputazione, ma certo non può essere invocato per lamentarsi di una perdita di reputazione che è causata da una propria azione, le cui conseguenze sono prevedibili. Ed invero, per Strasburgo, va considerato il comportamento di chi invoca il diritto alla reputazione: la donna, infatti, aveva già svelato dettagli sulla sua vita privata e cercato attivamente i riflettori della stampa. A ciò si aggiunga che, nel caso in esame, la ricorrente era una persona nota – in quanto tale, sottoposta a un più accurato scrutinio pubblico -, tenuta a un grado di tolleranza maggiore rispetto ai privati cittadini. Per quanto riguarda il titolo del giornale nel quale si sosteneva che la donna calpestava la memoria del marito, la Corte osserva che si tratta di un giudizio di valore, con un’evidente critica, frutto di una scelta editoriale dei giornalisti, ma senza affermazioni non veritiere. Per la Corte, quindi, in queste situazioni è irrilevante verificare se si tratta di una questione di interesse generale perché la concessione dell’intervista da parte della ricorrente, che ha parlato volontariamente della propria famiglia, implica la volontà di attirare l’attenzione di un certo tipo di lettori. Di conseguenza, i giudici nazionali, che non hanno effettuato un’analisi dell’interesse pubblico del contenuto dell’articolo, hanno agito nel rispetto della Convenzione facendo prevalere la libertà di stampa sul diritto alla reputazione.
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