Pubblicato il rapporto Unesco sulla sicurezza dei giornalisti e il rischio di impunità – Unesco Report on the Safety of Journalists and the Danger of Impunity

Per la prima volta il numero di giornalisti uccisi nel mondo è stato più alto nei Paesi in cui non sono in corso conflitti armati rispetto alle zone di guerra. Un’inversione di tendenza che la dice lunga sulla pericolosità del mestiere di giornalista anche nei Paesi democratici. Nel biennio 2016-2017 i reporter uccisi sono stati 182 e 86 da gennaio 2018 ad oggi (1.010 dal 2006 al 2017, che vuol dire un giornalista ucciso ogni 4 giorni). Non solo. A questo dato si affianca l’alto tasso di impunità per chi commette crimini contro i giornalisti: su 10 omicidi solo in un caso si arriva a processo. E’ quanto risulta dal rapporto Unesco sulla sicurezza dei giornalisti e il rischio dell’impunità pubblicato il 2 novembre 2018 (265828e). Un documento unico nel suo genere, che raccoglie dati ogni due anni e li sottopone all’International Programme for the Development of Communication (IPDC). Dal 2013, le Nazioni Unite, proprio per fronteggiare il rischio di impunità diffusa che minaccia la libertà di stampa e, quindi, la democrazia, hanno indetto la giornata internazionale contro l’impunità per i crimini nei confronti di giornalisti (risoluzione A/RES/68/163).  Sono i reporter d’inchiesta che si occupano di corruzione, politica e criminalità organizzata a essere i più colpiti (90% nel 2017), nella quasi totale indifferenza che si attenua solo nei casi in cui le vittime sono giornalisti stranieri. Obiettivi principali dei criminali, i giornalisti freelance (il 21% di tutti i reporter uccisi nel 2017, il 17% nel 2016).  A questi dati, poi, va aggiunta la circostanza che sono aumentate le vittime tra le giornaliste. Nel 2017 erano 11, il numero più alto di sempre a partire dal 2006. Senza dimenticare – si legge nel rapporto – la piaga delle molestie sessuali e dell’hate speech online rivolto in misura maggiore contro le donne. Per quanto riguarda le zone più a rischio, nel 2017, in vetta il Messico con 13 giornalisti uccisi, seguito dall’Afghanistan (11), dall’Iraq (8) e dalla Siria (7). Tra i Paesi Ue (non sono inclusi gli omicidi del 2018), Malta (1 giornalista uccisa) e Danimarca (1). Nel 2017 è leggermente aumentato il numero di casi risolti (11%) rispetto al 2016 (8%). Anche il Relatore speciale ONU sulla promozione e la protezione del diritto alla libertà di opinione e di espressione, David Kaye, d’intesa con Agnes Callamard, Relatore speciale sulle esecuzioni extragiudiziarie, sommarie o arbitrarie e Bernard Duhaime, Presidente del Working Group sulle sparizioni forzate, hanno pubblicato, il 31 ottobre, una dichiarazione congiunta (OHCHR).

Ma non mancano altri casi di intimidazioni contro i giornalisti. Sono tanti gli esempi di minacce, di querele intimidatorie e di arresti per impedire le attività dei cronisti di inchiesta che oggi possono essere monitorati grazie alla Piattaforma istituita dal Consiglio d’Europa (https://www.coe.int/en/web/media-freedom/all-alerts). A ciò si aggiungano gli assalti verbali e le minacce di politici al Governo, che spesso incitano alla violenza contro la stampa additando i cronisti come nemici del popolo. Proliferano, così, in Paesi non democratici, i casi di giornalisti che scompaiono nel nulla, arrestati con accuse pretestuose, reporter sorvegliati anche con mezzi informatici, con il sicuro rischio di compromettere la libertà dei media. L’impunità, poi, inevitabilmente fa aumentare le azioni violente contro i giornalisti. Scarse le reazioni della comunità internazionale che molto spesso finge uno sdegno di facciata. Ultimo caso in ordine di tempo, la tortura e l’uccisione del giornalista saudita Jamal Kashoggi, residente negli Stati Uniti ed editorialista del Washington Post. Inghiottito nelle stanze del consolato saudita a Istanbul il 4 ottobre, in un luogo che almeno apparentemente dovrebbe essere sicuro per i cittadini, non è più uscito. Almeno da vivo. Ormai nessun dubbio che lì dentro, il giornalista, che già da tempo scriveva articoli fortemente critici nei confronti del principe ereditario/dittatore Mohammed Bin Salman, ha pagato con la vita, dopo essere stato torturato, la sua attività di giornalista. Le reazioni della comunità internazionale non sono mancate, secondo un copione già visto, condito da sdegno iniziale e immediato oblio. Nel segno degli affari. Certo, c’è stata la richiesta di indagini indipendenti: il 9 ottobre, il Relatore speciale Onu sulla promozione e la protezione del diritto alla libertà di opinione e di espressione ha chiesto l’attivazione di una commissione di inchiesta internazionale indipendente (OHCHR | UN experts demand probe into disappearance of Saudi journalist in Istanbul), così come ha fatto l’Alto Commissario Onu sui diritti umani, Michelle Bachelet (UN rights chief says ‘bar must be set very high’ for investigation of murdered Saudi journalist | UN) e il Segretario generale Onu Antonio Guterres (Statement attributable to the Spokesman for the Secretary-General on the death of Jamal Khashoggi |). Gli Stati Uniti, fedeli alleati dei sauditi hanno deciso la revoca di 21 visti nei confronti di alcuni sauditi (sic!). E questo è quanto. Gli Stati, infatti, non hanno bloccato la vendita di armi all’Arabia Saudita, che, per di più sono utilizzate per la guerra nello Yemen, con gravissime violazioni del diritto internazionale umanitario.

Almeno per il momento anche gli Stati membri dell’Unione europea non sembrano aver attuato misure effettive, malgrado la richiesta del Parlamento europeo del 25 ottobre di sospensione nella vendita di armi (PE Khashoggi). Basti pensare, come risulta dalla diciannovesima relazione annuale riveduta ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 2 della posizione comune 2008/944/PESC del Consiglio che definisce norme comuni per il controllo delle esportazioni di tecnologia e attrezzature militari, che il 40,5 % delle licenze per l’esportazione di armi è stato concesso a Paesi nella regione del Medio Oriente e del Nord Africa per un valore di 77,5 miliardi di euro. In particolare l’Arabia Saudita, l’Egitto e gli Emirati arabi uniti hanno assorbito la maggior parte di tali esportazioni per un valore di 57,9 miliardi (esportazioni). Con buona pace dei diritti umani.

Nei prossimi giorni sono attese le conclusioni del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite sull’esame periodico universale dell’Arabia saudita (che attualmente ha un seggio nel Consiglio anche grazie al voto favorevole di alcuni Paesi Ue) programmato prima dell’uccisione di Khashoggi (qui i documenti https://www.ohchr.org/EN/HRBodies/UPR/Pages/SAindex.aspx).

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