Strasburgo sul principio del ne bis in idem nei casi di “daspo” sportivo – ECHR on double jeopardy in hooliganism case

Se il fine di una misura è prevenire ulteriori violenze e non punire l’autore di illeciti il principio del ne bis in idem non va applicato. La Corte europea dei diritti dell’uomo torna sui contorni di attuazione dell’articolo 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione europea che garantisce il principio in esame e lo fa con la decisione di inammissibilità Serazin contro Croazia pubblicata oggi e adottata il 9 ottobre (ricorso n. 19120/15, SERAZIN v. CROATIA), nella prima pronuncia relativa al ne bis in idem nei casi di teppismo durante eventi sportivi e divieto di ingresso negli stadi.

Il ricorso era stato presentato da un cittadino croato accusato di aver provocato disordini durante una partita di calcio. L’uomo era stato condannato a 25 giorni di carcere, pena sospesa e, in base alla legge sulla prevenzione dei disordini durante eventi sportivi, gli era stato ordinato di non accedere per un anno a incontri della squadra di calcio della Dinamo Zagabria. Fermato nuovamente in Croazia e all’estero per analoghi episodi, per impedire la commissione di nuovi illeciti, gli era stato comminato un nuovo “daspo”. Il ricorrente sosteneva di non essere stato processato e di essere stato punito due volte per lo stesso fatto. Le azioni sul piano interno erano state tutte respinte e all’uomo non è rimasto altro che rivolgersi a Strasburgo. La Corte europea, prima di tutto, ha ribadito che il principio del ne bis in idem si applica solo nel caso di procedimenti o di condanne penali, con la precisazione, però, che la qualificazione non va fatta sulla base del nomen o della classificazione interna, ma secondo i criteri già fissati dalla Corte europea nella sentenza Engel. Nel caso di specie, la misura che impedisce l’accesso agli incontri sportivi di una squadra non può essere qualificata come sanzione penale tanto più che – osserva la Corte – è evidente la finalità preventiva, funzionale a evitare nuovi episodi e a garantire la sicurezza pubblica. Così, manca il fine punitivo del provvedimento. Strasburgo, inoltre, ha evidenziato che leggi simili a quella croata sono presenti in altri Paesi come Regno Unito, Francia e Italia nonché in accordi internazionali. E’ vero – scrivono i giudici internazionali – che la misura era stata applicata a seguito di una condanna per reati minori e che il ricorrente era anche tenuto a firmare nella stazione di polizia, tuttavia la misura del “daspo” sarebbe stata applicabile anche a prescindere da un fatto illecito in sede penale. Inoltre, non si trattava di una conseguenza diretta della condanna penale tanto più che il tribunale avrebbe potuto rifiutarne l’applicazione richiesta dalla polizia. A ciò si aggiunga che, a seguito della seconda procedura con la quale era stato disposto il divieto di accesso negli stadi, l’uomo non era stato condannato né al pagamento di una multa né privato della libertà. Così, considerando che la misura ha, in via preminente, una natura preventiva non può essere classificata come misura di carattere penale nel significato autonomo della Convenzione. Una conclusione che non è intaccata, per la Corte, dalla circostanza che nel caso di violazione del provvedimento può essere decisa una multa o una misura detentiva.

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