Un ospedale cattolico non può licenziare il primario che contrae un secondo matrimonio – Dismissal of an employee due to a second civil marriage contrary to the principle of non-discrimination

Il divorzio di un medico cattolico che lavora in un ospedale religioso, come motivo di licenziamento, è una discriminazione fondata sulla religione. Questo perché il requisito circa il rispetto del carattere sacro e indissolubile del matrimonio non è una condizione professionale essenziale per l’attività professionale svolta e non può portare al licenziamento. Lo ha stabilito, seppure tra alcuni distinguo, la Corte di giustizia dell’Unione europea con la sentenza depositata ieri nella causa C-68/17 (C-68:17). A rivolgersi a Lussemburgo è stata la Corte federale del lavoro tedesca alla quale si era rivolta un primario di un ospedale gestito da una società tedesca soggetta alla vigilanza dell’arcivescovo cattolico di Colonia. L’uomo era stato licenziato dopo il divorzio dalla prima moglie e la stipulazione di un nuovo matrimonio, considerato nullo per il diritto canonico. In base al contratto, un simile matrimonio, per l’ospedale, doveva essere considerato come una grave violazione degli obblighi di lealtà. Di qui il licenziamento e l’impugnazione del provvedimento da parte del medico, con la Corte federale del lavoro che, prima di decidere, ha sottoposto un rinvio pregiudiziale d’interpretazione alla Corte Ue, in particolare sulla direttiva 2000/78 che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, recepita in Italia con il Dlgs n. 216/2003. Lussemburgo riconosce che una chiesa o un’altra organizzazione religiosa che gestisce un ospedale hanno il diritto di porre obblighi di lealtà ai propri dipendenti. Detto questo, però, per la Corte “una chiesa o un’altra organizzazione la cui etica sia fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, e che gestisce una struttura ospedaliera costituita in forma di società di capitali di diritto privato, non può decidere di sottoporre i suoi dipendenti operanti a livello direttivo a obblighi di atteggiamento di buona fede e di lealtà nei confronti di tale etica diversi in funzione della confessione o agnosticismo di tali dipendenti, senza che tale decisione possa, se del caso, essere oggetto di un controllo giurisdizionale effettivo al fine di assicurare che siano soddisfatti i criteri di cui all’articolo 4, paragrafo 2, di tale direttiva”.  I giudici nazionali, quindi, devono esercitare un controllo giurisdizionale effettivo e accertare che le condizioni poste siano inquadrabili tra i requisiti professionali essenziali, legittimi e giustificati rispetto all’etica. Pur lasciando la decisione ai giudici nazionali, gli eurogiudici tracciano il cammino sottolineando che l’adesione a una concezione di matrimonio come quello cattolico non appare “una condizione essenziale” per le prestazioni professionali del primario tanto più – osserva la Corte Ue – che posti analoghi erano ricoperti da dipendenti di confessioni non cattolica. Pertanto, per Lussemburgo “una differenza di trattamento, in termini di obblighi di atteggiamento di buona fede e di lealtà nei confronti di detta etica, tra dipendenti in posizioni direttive, in funzione della loro confessione o agnosticismo, è conforme alla suddetta direttiva solo se, tenuto conto della natura delle attività professionali interessate o del contesto in cui sono esercitate, la religione o le convinzioni personali costituiscono un requisito professionale essenziale, legittimo e giustificato rispetto all’etica della chiesa o dell’organizzazione in questione e conforme al principio di proporzionalità, il che spetta al giudice nazionale verificare”

Per quanto riguarda l’assenza di effetti diretti tra privati, la Corte, precisati gli obblighi di interpretazione conforme, ha affermato che spetta ai giudici nazionali verificare se una disposizione nazionale possa essere interpretata conformemente all’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 2000/78, senza procedere ad un’interpretazione contra legem. Tuttavia, il giudice nazionale ha l’obbligo di modificare una giurisprudenza consolidata se questa si basa su un’interpretazione del diritto nazionale incompatibile con gli scopi di una direttiva. Il giudice nazionale, infatti, “non può validamente ritenere di trovarsi nell’impossibilità di interpretare una disposizione nazionale conformemente al diritto dell’Unione per il solo fatto che tale disposizione sia stata costantemente interpretata in senso incompatibile con tale diritto”. In ogni caso, laddove è in gioco il divieto di discriminazione, va considerato che tale obbligo non deriva unicamente dal diritto derivato perché si tratta di un principio generale del diritto dell’Unione e, di conseguenza, è invocabile direttamente da un privato con l’obbligo di disapplicazione del diritto interno se contrario a detto principio. “Il divieto di qualsiasi discriminazione fondata sulla religione o sulle convinzioni personali – scrive Lussemburgo – riveste carattere imperativo in quanto principio generale del diritto dell’Unione ora sancito dall’articolo 21 della Carta, ed è di per sé sufficiente a conferire agli individui un diritto invocabile come tale nell’ambito di una controversia che li veda opposti in un settore disciplinato dal diritto dell’Unione”.

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