Il respingimento verso la Libia ha causato una situazione di pericolo e un rischio di trattamenti inumani e degradanti. E, quindi, la reazione dei migranti, necessaria per opporsi al respingimento in un Paese in cui la loro vita sarebbe stata a rischio, rientra nel perimetro della legittima difesa in base all’articolo 52 del codice penale perché la reazione è stata proporzionata. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, sesta sezione penale, con la sentenza n. 15869/22 depositata il 26 aprile (15869:22). A rivolgersi alla Cassazione sono stati due uomini, uno del Sudan e uno del Ghana, i quali hanno impugnato la sentenza della Corte di appello di Palermo che, riformando la pronuncia di primo grado, aveva condannato i due imputati perché avrebbero usato violenza per opporsi alla decisione del comandante di una nave italiana che, su decisione delle autorità competenti, li stava riportando in Libia. La vicenda aveva avuto il via quando in una zona della SAR libica erano stati salvati 67 migranti. La nave italiana che li aveva soccorsi aveva però ricevuto l’ordine di di ritornare verso la Libia e di procedere al trasbordo dei migranti su una motovedetta libica. I due imputati avevano reagito e avevano costretto il comandante del rimorchiatore a invertire la rotta e a dirigersi verso le coste italiane. Qui era intervenuta la nave militare “Diciotti”: i due imputati erano stati anche accusati di avere “compiuto atti diretti a procurare illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato” di numerosi migranti. Il Tribunale di Palermo aveva assolto i due uomini ritenendo che sussistesse la scriminante della legittima difesa, mentre la Corte di appello aveva ribaltato il verdetto. Un errore, secondo la Cassazione. La Suprema Corte ha ricostruito il quadro internazionale partendo dall’obbligo di soccorso in mare che è una norma di diritto internazionale consuetudinario, oltre ad essere prevista dalla Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare del 1982, dalla Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare (SOLAS) del 1980 e dalla Convenzione di Amburgo del 1979 sulla ricerca e il salvataggio marittimo (SAR). Chiarito che le Convenzioni SOLAS e SAR non forniscono una definizione di “luogo sicuro”, ma che è possibile avvalersi delle Linee Guida dell’Organizzazione internazionale Marittima, la Corte ha considerato i rischi di trattamenti inumani derivanti da un respingimento in un luogo non sicuro e ha preso atto che la Corte di appello non aveva valutato e motivato diverse questioni, come il diritto al non respingimento in un luogo non sicuro, la definizione stessa di luogo sicuro, la portata applicativa della Convenzione di Amburgo e del Memorandum Italia Libia del 2017. Di qui la conclusione della Cassazione secondo la quale la Corte di appello ha violato l’obbligo di motivazione rafforzata perché non è stato chiarito perché non fosse applicabile la causa di giustificazione della legittima difesa in relazione al comportamento dei due imputati. Ad avviso della Suprema Corte, invece, alla luce delle norme di diritto internazionale, dei trattati internazionali sul diritto del mare e a tutela dei diritti umani, della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e del Comitato ONU dei diritti umani, poiché il divieto di tortura è un principio di ius cogens e il non respingimento è una componente “del divieto di tortura strumentale alla sua attuazione”, invocabile non solo dai rifugiati ma da tutti gli esseri umani, oltre ad essere applicabile anche in zone extraterritoriali, non poteva essere disposto il ritorno verso la Libia che, nel 2018, non era un luogo sicuro. Inoltre, la scriminante della legittima difesa poteva essere applicata perché la reazione degli imputati era stata proporzionata.
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