Srebrenica: immunità ai caschi blu anche dalla CEDU

La giustizia per le madri di Srebrenica non passa per Strasburgo. La Corte europea dei diritti dell’uomo con una decisione dell’11 giugno ha detto no al ricorso presentato dall’associazione “Madri di Srebrenica” e dai familiari di alcune vittime che si erano rivolte alla Corte chiamando in giudizio i Paesi Bassi (STICHTING MOTHERS OF SREBRENICA AND OTHERS v. THE NETHERLANDS). Questo perché i tribunali olandesi, ai quali l’organizzazione si era rivolta in prima battuta, avevano negato la giurisdizione a causa dell’immunità di cui godono le Nazioni Unite e i suoi funzionari. Le donne  avevano citato in giudizio sia le Nazioni Unite, che avevano autorizzato la missione in ex Iugoslavia, sia i Paesi Bassi che, con le proprie forze armate, avevano il compito di garantire la sicurezza dell’enclave musulmana. Una missione fallita: l’11 luglio 1995 le forze dei paramilitari serbi erano entrate a Srebrenica provocando 8mila morti tra i musulmani bosniaci. I familiari delle vittime da molti anni tentano di ottenere giustizia. I tribunali olandesi, inclusa la Corte suprema, hanno sbarrato l’accesso alla giustizia in ragione dell’immunità dei caschi blu dell’Onu. Una conclusione che la Corte europea ha condiviso. Prima di tutto, sotto il profilo del locus standi, la Corte europea ha rigettato il ricorso dell’Associazione “Madri di Sebrenica” ritenendo che non potesse essere considerata vittima ai sensi dell’articolo 34 della Convenzione europea che richiede un certo collegamento tra il ricorrente e il danno subito a causa della violazione della Convenzione. Tra l’altro, la Corte ha sempre escluso la qualità di vittima a quelle organizzazioni create con il solo fine di far valere i diritti delle vittime. Inoltre, l’associazione non ha provato in che modo potesse essere classificata come vittima di una violazione degli articoli 6 e 13. Superato, invece, il filtro di ricevibilità per madri e moglie delle vittime.

Riguardo alla violazione della Convenzione, la Corte europea ha accertato che non vi è stata  una violazione dell’articolo 6 che assicura il diritto a un equo processo nel quale è incluso il diritto di accesso alla giustizia. La Convenzione europea – precisa la Corte – fa parte del diritto internazionale e deve, quindi, essere considerata e interpretata in armonia con i principi di diritto internazionale anche se la Convenzione ha una specialità in quanto trattato a tutela dei diritti dell’uomo. Tuttavia, talune limitazioni nell’attuazione dei diritti sono consentite dalla stessa Convenzione a condizione che non siano sproporzionate. Il diritto alla tutela giurisdizionale non è assoluto e può avere limitazioni derivanti anche dall’applicazione della regola dell’immunità che persegue un fine legittimo. Secondo la Corte, poi, è vero che il divieto di genocidio rientra tra le norme cogenti del diritto internazionale ma, in un procedimento civile, ciò non comporta un’esclusione dell’immunità dell’Onu che, nel caso di specie, stava agendo in base al capitolo settimo della Carta e, quindi, per mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Nell’escludere la prevalenza della norma cogente rispetto all’immunità, Strasburgo ha anche ricordato la sentenza Germania contro Italia della Corte internazionale di giustizia in cui i giudici internazionali hanno riconosciuto l’immunità dalla giurisdizione alla Germania per le deportazioni ordinate durante la Seconda guerra mondiale.

La Corte europea ha anche escluso la violazione dell’articolo 6 in rapporto alla decisione dei giudici olandesi di non rivolgersi in via pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea.

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