Vittimizzazione secondaria in un processo per stupro: l’Italia condannata da Strasburgo

Dettagli inutili sull’abbigliamento della donna e sulla sua vita sentimentale. Stereotipi diffusi attraverso le parole di una sentenza che costano all’Italia una condanna per violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che assicura il diritto al rispetto della vita privata. È stata la Corte di Strasburgo, con la sentenza depositata ieri (n. 5671/16, AFFAIRE J.L. c. ITALIE), ad accertare la violazione della Convenzione, che ha portato anche alla vittimizzazione secondaria della ricorrente. A rivolgersi ai giudici internazionali è stata una donna, studentessa all’epoca dei fatti, che aveva denunciato di essere stata vittima di una violenza di gruppo. Erano stati arrestati sette uomini e il tribunale ne aveva condannati sei per aver costretto la donna in stato di incoscienza ad avere rapporti di natura sessuale. La Corte di appello di Firenze, invece, aveva assolto tutti e la procura aveva deciso di non impugnare in Cassazione. Di qui il ricorso della donna a Strasburgo.

La Corte europea ha puntualizzato che nei procedimenti in cui sono contestati reati a sfondo sessuale le autorità inquirenti devono cercare un giusto equilibrio tra la tutela della dignità e dell’integrità personale della vittima e il diritto degli accusati a difendersi. È corretto evidenziare eventuali incongruenze nel racconto della vittima, ma senza consentire che il suo controinterrogatorio sia utilizzato come strumento per intimidirla o umiliarla. Nel caso in esame – osserva Strasburgo – gli inquirenti hanno condotto le audizioni correttamente, senza utilizzare mezzi che avrebbero potuto traumatizzare ulteriormente la vittima. Così come il processo è stato svolto con diverse accortezze, ad esempio vietando le riprese televisive.

Detto questo, però, la Corte europea stigmatizza l’operato della Corte di appello che, nella sentenza, ha inutilmente evocato la vita personale della donna. Riferimenti alla biancheria intima utilizzata, alla bisessualità, a rapporti occasionali: tutti riferimenti che la Corte giudica inappropriati e inutili per l’esame dei fatti e per la soluzione del caso. È vero – osserva Strasburgo – che la questione della credibilità della ricorrente era rilevante, ma i riferimenti alle scelte sentimentali o di abbigliamento del tutto fuori luogo e in grado di causare una vittimizzazione secondaria. Nei casi che hanno al centro accuse di stupro, inoltre, gli Stati hanno obblighi positivi di protezione delle presunte vittime. Certo – scrive la Corte – i giudici devono potersi esprimere liberamente perché ciò è una manifestazione del potere di discrezionalità proprio dei magistrati, ma questo è limitato dall’obbligo di proteggere la vittima e la vita privata di tutte le parti del processo. Nel caso in esame, per Strasburgo, il linguaggio e gli argomenti utilizzati dalla corte di appello hanno riprodotto stereotipi sessisti che esistono – come rilevato dal Gruppo di esperti per le azioni contro la violenza sulle donne e la violenza domestica (GREVIO) sull’attuazione della Convenzione sulla prevenzione e il contrasto alla violenza sulle donne e alla violenza domestica del 2011 – nella società italiana e che mettono a rischio la protezione effettiva dei diritti delle vittime, malgrado la legislazione nazionale sia soddisfacente. Così, il contenuto della sentenza della Corte di appello ha impedito il rispetto degli obblighi convenzionali.

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