Dipendenti di ambasciata e immunità di Stati esteri in una sentenza della Cedu

Il principio dell’immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione di un altro Paese persegue un fine legittimo come assicurare buone relazioni tra Stati, ma i limiti di accesso ai tribunali nazionali in materie di controversie di lavoro tra un cittadino dello Stato sul cui territorio si trova un’ambasciata di uno Stato estero e quest’ultimo devono essere proporzionali e in grado di garantire l’applicazione dell’articolo 6 della Convenzione europea, che assicura il diritto di accesso al giudice. E’ la Corte dei diritti dell’uomo a stabilirlo con la sentenza Naku contro Lituania e Svezia depositata l’8 novembre (ricorso n. 26126/07, naku). Questi i fatti. Una donna, cittadina lituana, aveva lavorato per diversi anni alle dipendenze dell’ambasciata svedese a Vilnius. La donna si era occupata del settore della cultura e dell’informazione. Entrata in conflitto con il nuovo consigliere per gli affari culturali era stata licenziata. La donna aveva cercato di far valere le proprie ragioni dinanzi ai giudici lituani ma le sue istanze erano state respinte perché i tribunali nazionali hanno escluso la propria giurisdizione in ragione dell’immunità della Svezia. Di qui il ricorso a Strasburgo. La Corte ha prima di tutto respinto il ricorso contro la Svezia tanto più che la donna non aveva presentato alcuna azione dinanzi ai giudici svedesi i quali, inoltre, sulla base del contratto firmato tra le parti avrebbero dovuto applicare il diritto lituano. Per quanto riguarda l’azione contro la Lituania, la Corte ha tracciato il perimetro in cui si muove la regola dell’immunità degli Stati in materia di controversie di lavoro. Strasburgo prende atto che sul piano internazionale c’è una tendenza volta a delimitare lo spazio dell’immunità, con eccezione, però, ai casi di reclutamento dello staff nelle ambasciate. Preso atto che l’immunità è stata erosa con il passare degli anni, la Corte richiama la Convenzione Onu sull’immunità giurisdizionale degli Stati e dei loro beni del 2 dicembre 2004 che parte dal principio che non sussiste l’immunità nel caso di controversie di lavoro, enunciando delle eccezioni a tale principio. Ed invero – osserva la Corte – nel caso in esame non sussistono le eccezioni indicate nella Convenzione perché la ricorrente non era cittadina svedese, né era un agente diplomatico o consolare. Non solo. La Svezia non ha mai sostenuto, dinanzi ai tribunali lituani, che sussistevano, per giustificare l’immunità, ragioni di sicurezza nazionale. Il caso in esame, inoltre, va distinto dalla pronuncia Fogarty che riguardava una discriminazione nel reclutamento perché, invece, la ricorrente, in questa vicenda, aveva lavorato per ben 14 anni e, quindi, erano in discussione i diritti legati a un contratto di lavoro. Quello che poi proprio non convince la Corte europea è il mancato accertamento da parte dei giudici nazionali circa la partecipazione della donna a funzioni sovrane dello Stato. I giudici interni – prima di dichiararsi incompetenti – avrebbero dovuto verificare se le funzioni della donna erano collegate all’esercizio di poteri sovrani. Proprio questo mancato accertamento fa dire alla Corte che è stato violato il diritto di accesso al giudice e, quindi, l’articolo 6, par. 1 della Convenzione dei diritti dell’uomo. Strasburgo ha disposto un indennizzo di 8mila euro per i danni non patrimoniali e 17mila per le spese processuali chiarendo che, però, in un caso come questo, il rimedio migliore sarebbe la riapertura del processo nazionale.

Si vedano i post http://www.marinacastellaneta.it/blog/immunita-degli-stati-limitata-nelle-controversie-di-lavoro.htmlhttp://www.marinacastellaneta.it/blog/si-dalla-cedu-allimmunita-delle-organizzazioni-internazionali-per-controversie-di-lavoro.html

Nessun commento

Aggiungi un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *